Sono le 5.45. Qui caffè e fuoco appena acceso. Fuori, invece, vento e buio pesto. Così – dopo 3 settimane di vergognosa latitanza – sono tornata: di nuovo blogger, di nuovo a scrivere sul mio taccuino virtuale. A dirla tutta non è successo un granché in queste giornate, dense, ma senza eventi degni di nota o di menzione. Ho lavorato (tanto) e allungato (di parecchio) la lista dei progetti per i mesi che verranno. Tanti gli appunti segnati di cui mi ero ripromessa di scrivere, ma inizio dal più recente: Robert Capa.
Sabato mi sono regalata un pomeriggio a Villa Manin, tra gli “scatti” che compongono la mostra, bellissima, a lui dedicata. Frammenti dolorosi di un passato recente, legati uno all’altro dall’amore per il raccontare. Necessità, interiore ed incondizionata, di documentare la guerra. E tutto senza narrazioni epiche o retoriche, ma di volto in volto: donne, bambini, anziani, soldati e rivoluzionari.
Sono foto straordinarie quelle di Capa che si snodano dalla Guerra civile spagnola, alla Seconda Guerra Mondiale, fino all’Indocina, dove morì a soli 40 anni. Fin troppo facile dire che sono immagini che dovrebbero valere come monito per tutti, ma invece sono lì a testimoniare – con evidenza disarmante – l’assurdo di una storia che si ripete. Purtroppo gli occhi della bambina, nella foto scattata nel ’39, durante l’evacuazione di Barcellona, sono gli stessi – stanchi e impauriti - dei bimbi di Gaza, di Sarajevo, di Aleppo e delle guerre che verranno.
Assieme alle foto, alle loro storie e alla leggendaria ostinazione di Capa, porto con me, inaspettate, anche queste sue parole: «Se le vostro foto non sono sufficientemente buone, vuol dire che non siete andati abbastanza vicino». Buona regola per tutti, soprattutto per chi, non solo con le immagini, racconta le vite degli altri.
Qui sotto un autoritratto di Capa; in alto, una foto scattata a Troina, in Sicilia: un contadino mostra a un soldato americano la direzione presa dai tedeschi.
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