Mc Manar

L’importanza di stare con Mc Manar

Numeri letti in fretta sui giornali. Al più volti passati in rassegna al tg, quando il mare inghiotte una nuova barca colma di vite in fuga. Ascoltare le storie di chi scappa da tutto, di chi non può fare altro che affidare la propria esistenza al mare è invece un’altra cosa. Oggi esce nei cinema (purtroppo pochi), distribuita da Cineama, «Io sto con la sposa», pellicola che racconta il viaggio — vero — di un gruppo di migranti partiti da Milano, inscenando un finto corteo nuziale, per arrivare in Svezia e chiedere asilo politico. Un gesto politico forte, un atto di disobbedienza civile per mettere in discussione una legislazione, in materia di immigrazione, insensata che continua a fare morti, rimanendo cieca di fronte a un mondo trasformato, in crisi, con un Medio Oriente che ribolle.

A ideare questa impresa il giornalista Gabriele Del Grande (qui una mia intervista), il regista Antonio Augugliaro e il poeta e giornalista palestinese, Khaled Soliman Al Nassiry. Realizzato con una campagna di crowdfunding senza precedenti in Italia, il film è addirittura approdato alla Mostra del Cinema di Venezia, lo scorso 4 settembre, nella sezione Orizzonti. A quella “prima” c’ero anche io. Ad emozionare (parola abusata, ma l’unica possibile) sono le storie dei protagonisti, delle loro vite interrotte dalla guerra in Siria o mai nemmeno veramente incominciate  perché schiacciate dall’insoluta questione palestinese.

Fa male, ma è necessario, il ricordo — al confine tra Italia e Francia — degli amici morti in Siria o durante la traversata del Mediterraneo. Le parole di Tasneem e Abdalla non sono i numeri lontani e anonimi a cui abbiamo fatto l’abitudine, ma ci avvicinano a quelle vite che fino a un certo punto, prima della guerra, sono state tanto simili alle nostre. Ma a cancellare del tutto l’anonimato che avvolge i migranti è il giovanissimo Manar, il suo rap a Marsiglia ha commosso anche me che sono restia alla lacrima facile. Questo dodicenne, palestinese siriano, che ha vissuto nel campo profughi Yarmouk, a Damasco, racconta in maniera unica e diretta cosa spinge tante persone a rischiare ciò che resta della propria vita per iniziarne una nuova in Europa. 

Vi consiglio questo film con tutto il cuore perché è vero, ostinato e indispensabile. È anche un piccolo manifesto per quei giornalisti che — come Gabriele Del Grande —, nonostante la precarietà, l’indifferenza dei media nostrani verso ciò che accade fuori dal proprio cortile, si mettono comunque tenacemente in gioco, rischiano e raccontano. Il 4 settembre, dopo la proiezione del film, c’è stata una commemorazione sulla spiaggia del Lido per ricordare tutti i morti del Mediterraneo. Di seguito alcune foto (di Paolo Pizzuti), nella speranza che non sia solo un gesto isolato, ma l’inizio di una coscienza maggiore, più aperta e più responsabile perché in questo tempo interconnesso ciò che accade altrove, accade inevitabilmente anche qui, non riguarda più solo gli altri, ma chiama in causa anche noi.

 

 

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