«Del periodo in cui Padova è stata laboratorio politico della violenza diffusa è rimasto poco nella memoria collettiva. Chi ne ha memoria, da una parte e dall’altra, preferisce non parlarne, dimenticare una ferita che non si è mai completamente rimarginata perché non è stata disinfettata; si è andati avanti senza elaborare quel periodo, ognuno chiuso nelle proprie convinzioni, incurante delle ragioni e della storia di chi militava dall’altro lato della barricata».
Ho finito stanotte il bellissimo – aggettivo banale, ma non saprei sceglierne un altro – «L’inferno sono gli altri» di Silvia Giralucci. Il libro l’ho riempito di foglietti e sottolineature, ma quello riportato sopra, da pagina 13, è un passaggio che riguarda anche me, perché, negli anni vissuti a Padova, su quelle memorie divise o nascoste ci sono inciampata pure io. I luoghi in cui snoda il racconto di quegli anni Settanta ho imparato a conoscerli bene, la Fusinato, il Liviano e piazza Capitaniato – dove sono nate le mie amicizie più preziose di quegli anni -, e poi Radio Sherwood, i concerti e gli incontri del Festival erano un must. Eppure la loro conoscenza, per la maggior parte di noi, si arrestava al quotidiano, in pochi sapevano delle riunioni di allora di Potere operaio, di via Zabarella, del 7 aprile. Si sapeva poco perché attorno a noi era opinione diffusa che quella memoria fosse meglio amputarla, scacciare i fantasmi di un passato che pareva remoto, ma che, in realtà, era appena dietro l’angolo. E così chi come me, invece, chiedeva, il più delle volte non trovava risposta. Oppure – se risposta c’era – venivi catapultato dalla memoria cancellata a quella divisa: narrazioni mitiche, spesso affabulatorie in cui si sorvolava ad arte sul nodo della violenza.
Le pagine scritte da Silvia Giralucci sono straordinariamente illuminanti perché raccolgono con onestà intellettuale – più unica che rara – le testimonianza dei protagonisti di allora: «Ho cercato delle storie che mi aiutassero a ripercorrere i fiumi carsici che scorrevano sotto una città solo apparentemente ordinata, colta, borghese. Microstorie antitetiche e inconciliabili, perché i punti di vista filtrano e deformano i ricordi. Storie che non vogliono sostituire la visione d’insieme o l’analisi più ampia che può fornire uno storico, che non aspirano a una rasserenante sistematicità, ma che spero possano comporre un quadro di memorie divise». Così scrive Giralucci che di quegli anni pagò un conto salatissimo: l’uccisione, nel 1974, di suo padre Graziano, prima vittima delle Brigate Rosse, e poi il silenzio, perché – lo sappiamo bene -, nel nostro Paese non tutte le morti hanno lo stesso diritto di cittadinanza. Da quelle pagine è nato anche un documentario, «Sfiorando il muro», presentato nel 2012 fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Silvia Giralucci venerdì 24 gennaio sarà a Majano, ospite del Circolo culturale di cui faccio parte – «Majano c’è 1.5.9» -, per raccontarci la sua esperienza e mostrarci il suo film. Vi aspetto.
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