È un po’ come quando gioca la nazionale e diventiamo tutti allenatori. Così succede con il Medio Oriente: quando cadono le bombe tra Gaza e Israele in molti, all’improvviso, ricordano di avere qualcosa da dire… o meglio, nell’era di Facebook, da postare. E allora fa capolino tanta inevitabile superficialità, quella dei derby della domenica. A Hvar mi sono portata un librettino (che lessi nel 1999) di appena 94 pagine (ma illuminanti), edito da Internazionale, che raccoglie alcuni articoli di Edward Said, intellettuale palestinese, «una voce critica — si legge nella quarta di copertina — per capire uno dei conflitti più complessi del mondo moderno».
Said in quelle pagine — e come ha sempre fatto — non risparmia una virgola a Israele e Stati Uniti, ma vale la pena leggere anche quando scrive di altre responsabilità cadute nell’oblio, ma che oggi, mentre Gaza muore, fanno comunque sentire tutto il peso di ciò che non è stato.
L’autore di Orientalismo ce l’ha con gli accordi del 1993 (Oslo I) che segnarono la riconciliazione mediatica tra Arafat e Rabin e scrive: «Quel che è peggio è che nel corso di questi ultimi quindici anni l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) avrebbe avuto più di un’occasione per concludere un accordo migliore di questo piano Allon nuova versione , facendo inoltre meno concessioni unilaterali. Ma la direzione dell’Organizzazione — e lo sa fin troppo bene — ha rifiutato tutte le occasioni di apertura che le sono state offerte». Il riferimento è alla fine degli anni Settanta e al piano di Vance. «Poi ci fu la Guerra del Golfo — prosegue Said — e, con le sue disastrose prese di posizione, l’Olp perse ulteriore terreno. Fatta eccezione per le decisioni del Consiglio nazionale palestinese del 1988, i benefici conquistati con l’intifada sono stati sperperati. Chi oggi parla a favore dell’accordo sostiene che non c’era altra scelta: ma dimentica di dire che si trova in questa situazione perché ha rifiutato tutte le altre possibilità».
E in un altro articolo del 1994, dopo un bilancio della dichiarazione del settembre 1993 («un incubo di interpretazioni, un collage di vecchie proposte israeliane e americane, con suggerimenti procedurali carenti e ambiguità e confusioni volute»), così scrive di «Olp, al Fatah e i partiti associati»: «La dirigenza politica ha frainteso a tal punto la sua stessa gente che in ogni luogo in cui i palestinesi vivono e si ritrovano c’è un malcontento che prende spesso le forme della ribellione aperta. Nessuna leadership può aspettarsi di detenere in eterno da sola il controllo sul denaro e il potere politico, distribuendoli a proprio piacimento. Circa cinquecento scuole, otto università e undicimila docenti languono nei Territori occupati privi di fondi e di una guida. I palestinesi sono stati vittime, più di qualunque altro popolo, di abusi da parte di ogni governo — sia arabo che non arabo — sotto la cui giurisdizione hanno vissuto. Perché dovrebbero tollerare pratiche simili da un governo che non è stato liberamente eletto né ha mostrato alcuno spirito di sacrificio o di rigore? Perché i palestinesi che vivono fra i disagi nei campi profughi dovrebbero accettare la corruzione, le spese folli di Parigi e l’inettitudine di un gruppetto di funzionari diretti da Tunisi?».
Ecco, a volte fa bene ricordare che a far ingoiare il popolo palestinese dal buio della storia non ci sono sempre e solo Israele e Stati Uniti, ma anche la stessa classe dirigente da cui ha avuto la sventura di essere guidato. Oggi con la strategia di Hamas, e il suo continuo gioco al rialzo, non mi pare si vada troppo lontano. E allora, in tutta onestà, anche a me piacerebbe — come scrive Christian Rocca su IL del Sole 24 ore — che da qualche parte, accanto agli appelli e boicottaggi a Israele, ci fosse anche «un appello di intellettuali occidentali rivolto ad Hamas» perché fermi i razzi. Ma temo che resteremo ad aspettare.
Foto di america.aljazeera.com - (Photo credit should read STF/AFP/Getty Images)
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