L'interno di una delle case abbandonate di Praforte.

L’abbandono forzato di Praforte. La Guerra fredda sulla nostra pelle

È una giornata piovosa. Saliamo dall’abitato di Castelnovo, sulla pedemontana pordenonese, verso la cima del monte Ciaurlec. Man mano che si avanza la vegetazione si infittisce, tanto che ci sembra di imboccare uno strettissimo e lungo tunnel verde da cui sbuchiamo solo una volta giunti in cima. Sullo spiazzo che si apre davanti a noi, lo spettacolo è desolante. Silenziosa e fatiscente c’è la carcassa di quella che potrebbe sembrare la piccola tribuna coperta di uno stadio. E invece questa costruzione negli anni Sessanta fungeva da osservatorio sulle manovre del poligono militare che occupava tutta quest’area. A sedersi su questi spalti fu pure il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat: «Salì in elicottero e scese su una jeep», ricordano ancora oggi gli abitanti.

Sul Ciaurlec il poligono militare

Sono qui insieme all’antropologo visuale Stefano Morandini : qualche giorno fa, infatti, gli avevo chiesto di portarmi in un luogo significativo del nostro territorio che raccontasse bene che cosa abbia voluto dire per il Friuli Venezia Giulia essere – durante la Guerra Fredda – confine dell’Occidente. Insieme ad Alessandro Monsutti, infatti, Morandini sta conducendo lo studio triennale «National Borders and Social Boundaries in Europe: the case of Friuli» finanziato del Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica (a questo l’intervista a Morandini per saperne di più sul progetto). «Siamo su quella che veniva identificata come “terza linea difensiva” – spiega –, in caso di invasione da parte dei Paesi del Patto di Varsavia, qui ci sarebbe stata la parte più consistente della difesa». Prima e seconda linea si trovavano nelle Valli del Natisone, a Purgessimo, e nella Valle del Torre. Territori di fatto ritenuti “sacrificabili”: «Da quell’area – continua Morandini –, soprattutto in caso di attacco con armi chimiche o nucleari, i militari posti a guardia dei bunker avrebbero avuto appena il tempo di avvisare dell’avvenuta invasione».
Oltre all’osservatorio qui c’era una postazione radio. E pure un bar, tanto che è ancora ben visibile il bancone decorato con un mosaico raffigurante lo stemma di un battaglione. Siamo in una zona naturalistica di pregio, un Sic, sito di interesse comunitario. Dove avvenivano i lanci veri e propri, però, l’area è interdetta e attende di essere bonificata.

La perizia e il destino di Praforte

Tuttavia la storia che Morandini vuole raccontarmi ha le radici altrove, più giù, nel paesino di Praforte, oggi disabitato. Torniamo dunque sui nostri passi e mentre scendiamo, non di molto, racconta: «Negli anni Sessanta l’attività militare qui si fece particolarmente intensa. Così, da un giorno all’altro, spuntò una perizia geologica secondo cui proprio l’area dove sorgeva il piccolo abitato sarebbe stata a rischio frana. Perizia che sarebbe poi risultata costruita ad arte. Venne così deciso il trasloco forzato degli abitanti, vennero messe a disposizione nuove case, costruite in linea e in piano». Insomma la questione è che qui – semplicemente – si voleva mano libera. Le autorità però non avevano messo in conto l’ostinata resistenza della popolazione. Famiglie che avevano trascorso qui la loro vita «in un rapporto simbiotico con il territorio», sottolinea l’antropologo. In gran parte si trattava di contadini e scalpellini che non avevano nessuna intenzione di abbandonare le loro case. «Alla fine – prosegue Morandini –, seppur con grande riluttanza, le famiglie, una alla volta, lasciarono Praforte. Nel piccolo cimitero l’ultima tomba è datata 1963. Rimase un ultimo “irriducibile”, Pietro Bortolussi. Non voleva saperne di andarsene. Dovettero intervenire i carabinieri che lo trascinarono via a forza, si era barricato in camera». Bortolussi, in realtà, Praforte non lo ha mai lasciato davvero, tornando qui ogni giorno incurante dei divieti. E non solo lui.

Imbocchiamo la stradina che porta al paese. Le case abbarbicate – tutte realizzate in pietra locale, caratterizzata da tre diverse colorazioni – raccontano meglio di mille parole l’abbandono. La vegetazione si è fatta spazio. I ballatoi di legno cadono a pezzi. Le porte delle case si aprono su stanze piene di calcinacci dove gli “spolert”, ormai male in arnese, sembrano personaggi attoniti, rimasti a bocca aperta, ancora increduli di fronte alla solitudine. A darci il benvenuto sono due grosse oche e dei tacchini. Dopo qualche istante, da un fabbricato in legno si affacciano Claudia, Marino e Giorgio. Tre dei sei figli di «Pieri». Ci portano nella vecchia latteria dove il padre ha allestito una sorta di luogo della memoria: alle pareti sono appese foto e articoli dell’epoca che davano conto della resistenza di allora.

Pieri l’irriducibile

Il primo a raccontare è Marino. «Ho vissuto qui fino a 12 anni. Ci dicevano che sarebbe franato tutto, invece non è franato nulla. Il ricordo di quando ci portarono via è bruttissimo, noi stavamo bene qua. È per questo che torno appena posso, praticamente ogni giorno». «Le case – gli fa eco Claudia – non sono andate giù nemmeno col terremoto». Ci mostrano le fotografie di donne e uomini spaventati che se ne vanno, trasportando le proprie cose sui carretti di legno. «Per nostro padre – continua Claudia – è stata un’autentica tragedia, era nato, cresciuto e sposato qui. Noi fratelli ci ritroviamo spesso quassù. Guardo tutto con gli occhi di allora. I miei figli e i miei nipoti sono stati battezzati qui». Marino intanto sta risistemando la loro casa, ora che si sa che la perizia era “costruita” è stata concessa la possibilità di realizzare almeno dei ricoveri.
«Realtà come questa – mi spiega Morandini –, sono autentiche isole di resistenza, costituite da persone che continuano, con ostinazione, a fare manutenzione della memoria». Lasciamo Praforte custode del segno che la “grande storia” ha lasciato sulla vita delle persone e del nostro Friuli.

Pubblicato sul numero 44 del settimanale diocesano di Udine «La vita Cattolica»

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