corsa di ragazze

L’8 marzo e il mio editoriale

«Non mi svesto dei panni che son solito portare». Usò questo verso dell’Avvelenata di Guccini – ormai mille anni fa -, un carissimo amico, semplicemente per dirmi «buon compleanno» e augurarmi di custodire nel cuore l’idealismo, spesso (troppo) radicale, di cui era intrisa quell’adolescenza in parte vissuta insieme e che stavamo iniziando a lasciarci alle spalle. In quell’idealismo – operoso, non fatto di sole parole – c’è sempre stata, per me, la questione delle donne. Qualcuno, non troppo tempo fa, mi ha chiesto che senso ha dirsi «femministe» oggi. Non mi piacciono le «etichette», ma lavorare per colmare una distanza, ancora troppo grande, ha senso eccome, anche oggi. Nel numero in edicola questa settimana di «Vita Cattolica», il settimanale per cui lavoro, c’è in prima pagina un mio editoriale, contestato da qualcuno, apprezzato da altri, strumentalizzato da altri ancora. Insomma, ho criticato la scelta del Comune di Udine di dedicare «Calendidonna» alle «Femen». La questione è semplice, ho sempre detestato l’uso mediatico che si fa del corpo della donna, dalla pubblicità, ai programmi tv. Continuo a non condividerlo anche se a farlo sono delle donne e anche se lo fanno per rivendicare dei diritti. Tanto più se le donne in questione sono attentamente selezionate sulla base di criteri estetici (avete mai visto una «Femen» anche solo bruttina?) e se ciò che ci sta dietro è poco chiaro. Il rischio, a mio avviso, è quello di mettere in ombra il lavoro di chi – femminista o no – per i diritti delle donne si impegna e si batte davvero. Pubblico di seguito il mio editoriale, buona lettura e buona festa della donna!

Davvero vogliamo l’esempio delle «Femen»?

C’è chi – con ostinata determinazione – si sforza ancora di spazzar via l’ingombrante coltre che nel tempo si è accumulata sul senso autentico, lasciandolo appena intravedere, dell’8 marzo, Festa internazionale delle donne. Una coltre così fitta che sono in molte, soprattutto tra le più giovani, ad aver cancellato questa ricorrenza dal proprio orizzonte culturale. Eppure si tratta di una giornata che dovrebbe essere una preziosa occasione per accendere i riflettori sulle questioni che pesano sull’esistenza delle donne, facendole divenire temi di rilevanza sociale e soprattutto politica. Un momento dunque per fermarsi a riflettere, fare bilanci e guardare a quello che si vuole per il futuro. Qualcuno potrebbe forse obiettare che si tratta di un rituale. Certo. Ma come tutti i rituali – fondati su fatti di valenza simbolica – ha lo scopo di rafforzare la coscienza collettiva, i valori di una comunità, indicandone gli orientamenti di fondo. Quanto a bilanci, ad esempio, varrebbe la pena chiedersi quanto abbia inciso sulla questione di genere un parlamento, eletto un anno fa, caratterizzato dalla più alta presenza femminile della nostra storia repubblicana: il 31%, contro il 20% del 2008 e l’11% del 2001. Quanto si è fatto di concreto in questo anno per colmare la distanza che ancora divide uomini e donne? Quanto e cosa c’è invece ancora da fare? E poi, perché non interrogarsi su quanta coerenza ci sia nel far seguire alla perfetta parità di genere del nuovo Governo (8 a 8) la nomina, su 44 sottosegretari, di sole 9 donne?

Davvero il nostro non è più il tempo di fare un passo avanti e subito dopo uno indietro. E questo vale per tutti, a tutti i livelli. Ad esempio, meraviglia che il Comune di Udine abbia deciso di dedicare una manifestazione così prestigiosa come «Calendidonna» al movimento delle «Femen», le ragazze ucraine (e non solo) che manifestano le loro ragioni a seno nudo. Davvero l’idea che il corpo sia assunto come manifesto su cui issare messaggi è l’orizzonte che si vuole dare alle tante battaglie che ancora attendono le donne? Proprio ora che l’approccio alla questione di genere, anche grazie alle donne migranti, si arricchisce dell’apporto fecondo di universi femminili diversi, si punta a chi invece agisce secondo pratiche e discorsi standardizzati anche in contesti del tutto differenti, ad esempio in Occidente e in Medio Oriente, con danni spesso significativi? Il rischio è quello, grave, di mettere in ombra la pluralità delle esperienze a favore, invece, di un movimento, quello delle «Femen» irrigidito nei propri slogan, ma agevolato da un’esposizione mediatica elevatissima e altrettanto «patinata» e superficiale.

Che dire poi del rischio che venga messo sotto silenzio tutto quel patrimonio di cultura e pratica politica che generazioni di donne impegnate ci hanno trasmesso? Recentemente ho letto l’ultimo libro di Benedetta Tobagi, «Una stella incoronata di buio. Storia di una strage impunita», dove Tobagi racconta ed indaga la strage di piazza della Loggia attraverso la vita di Livia, vittima di quella follia omicida. Il ritratto che di lei il libro ci consegna è quello di una donna che ha dedicato la sua, seppur breve, esistenza a dare risposte concrete a quella domanda di giustizia che la questione femminile reclama dalla notte dei tempi. Ecco, in tutta onestà, è a quel femminismo colto, impegnato e concreto che bisognerebbe guardare, non a quello mediatico e troppo spesso grossolano delle «Femen». Le sfide da vincere sono ancora tante e allora deve essere illuminata di quella memoria – fatta di persone come Livia – la consapevolezza che oggi le donne sono portatrici di domande di cui la società intera deve farsi carico, da un lato domande di eguaglianza nelle opportunità di lavoro, dall’altro domande di cura (per bambini e anziani) da cui dipendono gli equilibri demografici e il benessere collettivo del nostro Paese. Serve il coraggio per una riorganizzazione del lavoro (oltre che del suo mercato), che coinvolga uomini e donne e non faccia della conciliazione famiglia-lavoro un «affare» solo per donne. Per tutto questo, e molto altro ancora serve ben più di un semplice siparietto mediatico.

Anna Piuzzi

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