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Nella voce di Ajla le tante donne in fuga dalle guerre dei Balcani

caserma pasubio 2Ci sono storie che, nell’animo di chi le custodisce, decantano per anni. Una gestazione lenta, ma potente, che dà vita a personaggi autentici, capaci di concedere tregua solo quando abbiano trovato forma compiuta sulla pagina scritta. È successo a Maria Silvia Bazzoli – giornalista, documentarista e ora scrittrice – che allo scoppio delle guerre nell’ex-Jugoslavia seguì le vicende dei profughi e della loro accoglienza in Italia, soprattutto a Cervignano, nell’ex caserma Monte Pasubio (le foto qui pubblicate sono tratte dalla pagina Facebook del Ciò che rimane). Sono innumerevoli le testimonianze che raccolse lì, tra le donne in fuga da un conflitto che – come altrove, del resto – aveva fatto del loro corpo un campo di battaglia, attraverso lo stupro etnico e violenze indicibili. Quella miriade di frammenti ora si ricompone in «La voce di Ajla», il romanzo d’esordio di Bazzoli, pubblicato dalla Forum editrice nella collana (s)confini (qui il podcast con l’intervista radiofonica a Maria Silvia Bazzoli per Radio Spazio).

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Le due protagoniste – Ajla e la figlia Alina – hanno “inseguito” l’autrice per anni, il lettore le incontra in una Parigi imbiancata dalla neve (elemento ricorrente nella narrazione), alle prese con la memoria: «Parigi ovattata sotto la neve assomiglia a un acquario dove galleggiano volti e immagini, e io… io mi ci trovo a nuotare disorientata, sopraffatta dai ricordi che non volevo» spiega Alina all’amica Hellen. Ajla si trova in ospedale, sprofondata in uno stato di catalessi, inspiegabile per i medici. Alina – ricamatrice, affermata fiber artist – è appena rientrata da New York per assistere la madre del cui passato non sa nulla, per lei dunque è giunto il tempo di riannodare i propri ricordi con la storia di Ajla.

Inizia così un dialogo che viene concesso e affidato, nella sua interezza, solo al lettore perché Ajla racconta, ma la sua voce è muta. Ad Alina dunque toccherà intuire, raccogliere indizi e scavare nel passato. Il suo è il destino che accomuna tantissimi giovani, i cosiddetti “figli della guerra” che – nei Balcani e in tutta Europa – hanno scelto di scoprire le proprie radici per quanto dolorose, ma indispensabili per ricomporre la propria identità.

È – quello di Alina – uno scavare che però restituisce molto anche a noi, perché, come società, abbiamo archiviato in fretta quella parentesi della storia europea che coinvolse così da vicino il nostro territorio. Un indagare che ci dà conto, per altro, della difficoltà che quelle donne affrontarono per ricostruire la propria vita: grazie ai ricordi di Alina scopriamo, infatti, che le due protagoniste vissero i primi anni a Parigi in strada, in estrema povertà. Ma è proprio quel guardare il mondo dal basso, dal marciapiede, che dona ad Alina la capacità di sentire nel profondo l’umanità di chi incontra.

Tutto questo ci viene consegnato da una scrittura ricca, dal passo poetico, che però non edulcora nulla, anzi, quando deve dire la violenza, si fa diretta, scarna ed essenziale.

«La voce di Ajla» è un libro importante, arrivato in libreria proprio nei giorni in cui ricorrono i 25 anni dagli accordi di Dayton – che sancirono una pace sempre in bilico e la definitiva divisione etnica della Bosnia –, a un quarto di secolo (celebrato a luglio) dall’eccidio di Srebrenica in cui, sotto gli occhi di un’Europa inebetita, furono ammazzate ottomila persone.

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A firmare la postfazione è poi un’autrice che meglio di altri ha analizzato le vicende dei Balcani, Nicole Janigro. Infine, più che indovinata l’evocativa immagine di copertina: uno scatto tratto dalla serie «Il sogno delle cose» di Ulderica Da Pozzo, anche lei capace come poche di tessere, per immagini, le storie delle donne.

Maria Silvia Bazzoli / La voce di Ajla / Forum / 192 pagine, 16, 50 euro

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