Ho seguito un suo corso di scrittura digitale alla Holden di Torino, ma – fino a qualche settimana fa – non mi ero ancora avventurata tra le pagine dei suoi libri. Male! Perché Per legge superiore e Morte di uomo felice (premio Campiello 2014) di Giorgio Fontana si fanno leggere tutti d’un fiato.
Sono due storie che hanno vita propria, ma legate dalla figura del magistrato Giacomo Colnaghi la cui vicenda si dipana in Morte di un uomo felice; mentre – in Legge superiore – è presente solo nel ricordo del collega e amico Roberto Doni che cita il suo motto: «Eccezioni sempre, errori mai».
Al centro dei due lavori di Fontana c’è lo scottante tema della giustizia, incarnato nell’interrogarsi, in modi e contesti diversi, di Doni e Colnaghi. Morte di un uomo felice ci trascina nei primi anni Ottanta, nella coda più feroce della stagione del terrorismo. Colnaghi con la sua piccola squadra (di cui fa parte un pezzetto di Friuli, la Fraz, inquirente «dal lungo naso adunco», «comunista friulana senza il minimo senso dell’ironia, piovuta da chissà dove, con quegli occhi cerchiati di viola per l’insonnia») indaga su una nuova banda armata, responsabile dell’omicidio di un politico della Dc. L’indagine per Colnaghi è attraversata dal dubbio, dal tentativo di capire ciò che muove i terroristi che incontra, per arrivare all’origine delle ferite che attraversano l’Italia di quegli anni. In parallelo alla sua storia è narrata quella del padre, Ernesto, partigiano ucciso quando lui era solo un bambino.
Anche l’esistenza di Doni, protagonista di Per legge superiore, è, ad un tratto, agitata dagli interrogativi. Ad attanagliarlo è un dilemma morale che gli impone di confrontarsi con l’inadeguatezza della sua idea di giustizia. Alle prese con un processo nel cui appello dovrà sostenere l’accusa contro un tunisino – a cui è attribuito un crimine in via Padova a Milano – viene contattato da Elena, una giovane giornalista precaria che vuole provare l’innocenza dell’uomo. La donna lo fa immergere in una città sconosciuta, una periferia che lo costringe a misurarsi con un’idea di “legge superiore”, ponendolo a un bivio: diventare o non diventare il magistrato che deve, anche a prezzo di carriera e famiglia?
In una scrittura asciutta e pulita Fontana mette in dialogo due capitoli della storia italiana in qualche modo legati tra loro, accompagnando anche noi – attraverso i pensieri di Colnaghi e Doni – in una strada disseminata di domande.
Sono parecchie le frasi che ho sottolineato in questi due libri, ma riporto questo passaggio perché dice del mio rapporto con la «parola scritta» meglio di quel che avrei saputo fare io:
«E cosa farai?». «Cosa farò. Chi lo sa». Arrivarono le nuove birre. Elena prese subito un sorso. «A volte cerco di immaginare il mio futuro senza la parola scritta. Ma mi riesce difficile. Ormai non è solo una questione di professione, o di passione, come ti vengono a dire… È una questione esistenziale. Ho sempre voluto fare la giornalista, perché ho sempre creduto che la parola possa rispecchiare la realtà. Per ogni parola deviata che viene detta — per ogni parola falsa, menzognera, pubblicitaria, cattiva — c’è una parola buona da scovare, quella che racconta le cose come stanno. Tutto qui».
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