Storie di botte dentro casa. Di umiliazioni e tormenti. Le avete mai ascoltate da chi le ha vissute? A me è capitato per lavoro. Storie indicibili che ad ogni parola ti tolgono il fiato. Storie che ti raccontano come in alcuni contesti una donna valga meno di zero. E così, mentre leggo il giornale, provo un piccolo moto di gioia.
Li Yan ha 43 anni ed è rinchiusa in un carcere di provincia in Cina: condannata a morte per aver ucciso il marito che la picchiava sistematicamente, la umiliava, la minacciava. Si sono mobilitati in tanti per lei, Amnesty international in testa. Una battaglia che non è solo per Li Yan, ma per migliaia di donne cinesi che sono in prigione per le stesse ragioni: omicidio o ferimento intenzionale del coniuge. I tribunali della Repubblica popolare non prendono in considerazione la lunga storia di abusi subiti dalle imputate. Ma forse non sarà più così: la notizia di oggi è che la Corte suprema di Pechino ha annullato la sentenza e ordinato la ripetizione del processo.
Sorrido e penso a chi mi ripete che la mia partigianeria femminista (?) è anacronistica. Penso alle tante donne che in Italia subiscono violenza, che vengono umiliate con una lettera di dimissioni in bianco, pronta per ogni evenienza. Penso anche a quelle che altrove subiscono anche di peggio. E allora mi convinco che la mia partigianeria è tutt’altro che anacronistica. A Majano, nell’ultimo Consiglio comunale, è stato votato un ordine del giorno contro il Feminicidio. Ho chiesto che alla delibera fossero allegati anche i nomi delle 134 donne uccise in Italia nel 2013. Un piccolo gesto per non dimenticare che dietro ai numeri – agghiaccianti – ci sono persone in carne e ossa con le loro vite.
Intestardirsi sulla questione di genere ha poi ancora più senso se si allarga il proprio orizzonte, gettando lo sguardo più in là, dove le donne magari non possono nemmeno guidare. Tornando da dove siamo partiti, in Cina – dove potremmo pensare che decenni di comunismo abbiano realizzato la perfetta parità di genere -, vale la pena leggere quanto scrive sul Corriere della Sera Guido Santevecchi a chiusura dell’articolo su Li Yan:
«Le donne cinesi hanno cominciato a mobilitarsi e organizzarsi alla fine del 1800, con rispettate intellettuali che reclamavano il diritto all’istruzione, al voto, al lavoro, alla sessualità. Nel 1900 hanno avuto un ruolo importante nell’ascesa del Partito comunista e nella conquista del potere e con la proclamazione della Repubblica popolare nel 1949 i loro diritti, la loro eguaglianza sono stati formalmente riconosciuti. Ma la realtà è diversa: i salari sono sempre più bassi rispetto a quelli degli uomini e secondo stime del governo il 25 per cento delle donne in Cina ha subito abusi, aggressioni, restrizioni della libertà personale, controllo economico, sesso forzato nel matrimonio. L’ufficio statistiche ammette che il dato è sottostimato, molte non denunciano. Nelle stanze segrete del Partito comunista le donne sono una rarità: solo due tra i 25 membri del Politburo e mai nessuna accettata nel suo Comitato permanente; meno del 5% tra i 200 del Comitato centrale. Le cinesi però sono eccellenti negli studi e stanno conquistando posizioni di vertice nel management aziendale: sono il 51% nei ruoli senior, secondo sondaggi internazionali. Per le lavoratrici normali invece la diseguaglianza di genere è ancora grave e il gap salariale si allarga: le dipendenti nelle città cinesi guadagnavano il 78% dei colleghi maschi nel 1990, ora sono scese al 67%.
Negli ultimi tempi le donne si stanno riorganizzando: gruppi di attiviste si sono mostrate in pubblico con il capo rasato per protestare contro la discriminazione sul lavoro; altre si sono sporcate di vernice rossa come il sangue della violenza. E i giornali hanno scritto molto di Xiao Meili, che questa primavera ha marciato per 2.298 chilometri da Pechino a Canton per sollevare il problema degli abusi sessuali».
Altro che anacronismo!
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