«Un giorno la gente ne avrà bisogno e imparerà ad apprezzare quest’arte». Parole che già da sole sono un buon motivo per fare tappa a Villa Manin (io ci sono stata ieri) per conoscere George Costakis attraverso una mostra che è uno strepitoso assaggio dell’immenso patrimonio di opere d’arte dell’Avanguardia russa che «il greco pazzo» ha instancabilmente collezionato per tutta una vita.
E decisamente non deve essere stato facile essere un collezionista d’arte nella Mosca staliniana, e poi in quella degli Anni 70, e per di più alla luce del sole, coltivando i contatti con gli artisti, ma anche con le istituzioni, dando vita nella propria casa ad un centro culturale. Non solo un’attitudine (agli occhi del regime) pericolosamente borghese, quella di Costakis, ma quasi una provocazione perché scelse di collezionare le opere di artisti non conformisti, banditi dai musei e per l’ufficialità del tutto inesistenti. L’istante che illumina il suo percorso è quello in cui s’imbatte in un quadro di Olga Rozanova, istante di cui dirà: «Mi accorsi che fino a quel momento avevo vissuto senza aprire le finestre». Da lì con tenace furia inizia ad acquistare le prime opere – che col tempo diventeranno migliaia -, sculture, quadri, disegni, appunti, studi soprattutto d’inizio Novecento, da Chagall a Malevich, da Kandinsky a Tatlin, da Rodchenko a Popova, da Rozanova a El Lissitzky.
Quella a Villa Manin è una mostra da visitare tenendo ben presente proprio questa cornice di riferimento. I quadri vanno guardati davvero come finestre colorate che qualcuno non ha potuto fare a meno di spalancare per dar voce e spazio a uno straordinario desiderio di sperimentazione. Finestre che si sono aperte (e si sono alimentate) in un momento in cui la promessa di cambiamento (o meglio di rivoluzione) era potente e sembrava voler davvero consegnare all’uomo un mondo nuovo. Promessa, come sappiamo, puntualmente tradita. Anzi, quel tradimento fu accompagnato – come sempre accade – dal tentativo di chiudere quelle finestre spalancate. Per fortuna un «greco pazzo» ha avuto lo sguardo lungo e coraggio da vendere.
Di fatto le mostre a Villa Manin sono due, perché salendo al secondo piano ci si schiude davanti il mondo della fotografia di Aleksandr Rodčenko. Cento opere tra fotografie originali, collage, fotomontaggi, copertine e stampe, pubblicità, provenienti dal Multimedia Complex of Actual Arts di Mosca. E anche qui è straordinario pensare che quegli scatti – di assoluta sperimentazione – risalgono agli anni Venti e Trenta.
Ciò detto mi ha fatto un enorme piacere vedere tante famiglie con bambini (affascinati ed in religioso silenzio) a visitare la mostra. Spessissimo mi sono sentita dire: «Tu ci puoi andare perché non hai bambini» (considerazione che potrei declinarvi in mille altre varianti). Certo, non ho bambini. Ma credo che iniziare un bimbo al gusto dell’arte e alla curiosità di visitare una mostra sia questione di volontà e non un’eresia. In una saletta della mostra davano un documentario su Costakis, dietro a me c’era una mamma con sua figlia, di massimo cinque anni. «Mamma mi sto un po’ annoiando». Risposta: «Perché non guardi bene e credi di non capire». E mentre scorrevano le immagini dei quadri si è presa la bambina in braccio e ha cominciato a chiederle: «Cosa vedi lì?». Attenzione catturata, bambina estasiata.
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