Occhio e croce, dicono, gli italiani a Londra sono 500 mila. Per “visualizzare” la portata dell’esodo, basta chiudere gli occhi e immaginare una cartina del Bel Paese con un buco in corrispondenza di una città come Bologna o Firenze. O ― se ci piace di più essere campanilisti ― cancelliamo poco meno di mezzo Friuli e siamo a posto. Qualche giorno fa un amico ― parlando di un altro amico che da qualche mese ha giocato la carta della City ― mi ha detto: «Onestamente non so quanto convenga. Marco per esempio si paga un affitto da paura e si fa ogni giorno 45 minuti di metropolitana». Ecco la riflessione sta proprio qui: se nonostante l’affitto da paura, i 45 minuti di metropolitana (che poi non mi sembrano un granché, visto che io ne faccio altrettanti di corriera), lo smog, il maltempo britannico e tutto il resto si rimane comunque a Londra, segno evidente che non si tratta solo della questione dell’aver trovato un lavoro oltremanica.
Ci viene allora in aiuto un libretto intelligente e divertente (anche se a tratti sconfortante). Si tratta di «Italia yes Italia no. Che cosa capisci del nostro Paese quando vai a vivere a Londra» della giornalista Caterina Soffici. Io l’ho letto tutto d’un fiato dopo aver ascoltato l’autrice sabato scorso a Pordenonelegge dialogare assieme a Corrado Formigli (del cui volume, «Impresa impossibile» parleremo). Il libro di Soffici è il racconto ― costruito mettendo in fila, uno dietro l’altro, momenti di quotidianità concreta ―, di un Paese e di un sistema che noi italiani potremmo pensare si trovino su un altro pianeta. Ciò in cui ti riconosci ― o almeno io mi riconosco ― è quel «desiderio di normalità» che Soffici a Pordenone ha citato più volte e che sta in questo passaggio che vale tutto il libro: «Chi lascia l’Italia lo fa perché non ne può più. Perché c’è un momento in cui il piatto della bilancia comincia a pendere troppo da una parte e la “dolce vita” non basta a riportarlo in equilibrio. La qualità della vita, il cibo, il sole, il mare non ce la fanno più a compensare quello che ti tocca ingoiare tutti i giorni in Italia. È un limite personale. Ognuno ci arriva secondo la propria sensibilità e situazione. Ma adesso siamo in troppi, ad averlo superato. In troppi preferiamo andare a vivere peggio per stare meglio. Vogliamo vivere in paesi civili, dove si rispettano le regole, dove il bene comune è superiore all’egoismo del singolo, dove chi sbaglia paga, dove i politici si dimettono, dove i diritti non sono un privilegio, dove i privilegi non sono istituzionalizzati, dove non c’è bisogno di avere santi in paradiso, dove non si invidiano i furbi e non si deridono gli ingenui». In questo libro si parla di Londra, ma in tutte le storie che ho raccolto di giovani friulani all’estero, la musica è sempre la stessa: l’impressione è quella di essere sbarcati in un mondo altro, dove le cose funzionano e, soprattutto, dove il tuo impegno viene riconosciuto, dove le occasioni, se sei in gamba, arrivano anche se hai 25 anni, così ― per dirne una ― la gerontocrazia, all’improvviso, diventa solo un ricordo lontano.
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