Di Bartolomeo Iraq

Siria | Dal Friuli al Rojava, la missione umanitaria del medico udinese Stefano Di Bartolomeo

Dieci anni esatti di guerra. 500 mila morti. Sei milioni di profughi e altrettanti di sfollati interni. L’80 per cento della popolazione ridotta in condizioni di povertà e due milioni e mezzo di bambini che non possono frequentare la scuola. Il regime di Assad, intanto, con buona pace dei morti, è rimasto al suo posto. È questa la mostruosa contabilità della guerra in Siria, una tragedia umanitaria dalle dimensioni indicibili.

Eppure, ormai da tempo, i siriani sono stati abbandonati al loro destino. Figurarsi ora che il mondo è abitato dal Covid 19. Non per tutti però la Siria è scivolata nell’oblio, è il caso del friulano Stefano Di Bartolomeo (nella foto in alto, in Iraq), medico specialista in Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale di Udine che è rientrato da pochi giorni da una missione di tre settimane nel nordest del Paese, insieme a lui la collega Chiara Pravisani.

I medici friulani Chiara Pravisani e Stefano Di Bartolomeo in Siria

I medici friulani Chiara Pravisani e Stefano Di Bartolomeo in Siria

Al suo attivo – oltre a un diploma in Medicina tropicale conseguito a Londra e un dottorato di ricerca e una specializzazione in Igiene ed Epidemiologia – Di Bartolomeo ha un lungo curriculum “di guerra”. A partire dalla fine degli anni Novanta ha infatti preso parte a diverse missioni umanitarie internazionali con la Croce Rossa e con Medici Senza Frontiere. È stato in Sud Sudan, in Eritrea e in Darfur. E ancora in Yemen, in Myanmar e in Iraq, a Mosul durante la sua caduta. E poi in Kenya, Ucraina, Siria, appunto, e in Nigeria. Missioni lunghe, di mesi, compiute prendendo periodi di aspettativa, questa volta invece – essendo questo un tempo di emergenza sanitaria – ha impiegato le ferie maturate.

La missione in Rojava

«C’era la necessità – spiega Di Bartolomeo che incontriamo all’ospedale di San Daniele, dove attualmente presta servizio – di medici anestesisti per l’avvio di tre rianimazioni Covid nel nordest del Paese, una missione breve con l’ong italiana Un ponte per (realtà che dal 1991, a partire dalla guerra in Iraq, lavora in Medio Oriente, ndr), così la collega Pravisani e io ci siamo resi disponibili insieme al primario di rianimazione di Rimini e un altro medico di Rieti. Si è trattato di affiancare il personale sanitario locale, in un momento difficile e in una realtà complessa, in cui al conflitto si sovrappone la pandemia, proprio in questo momento infatti è in corso una nuova ondata di contagi. Per altro quando abbiamo lasciato la Siria, il 29 marzo, nel Paese c’erano reagenti per processare i tamponi e dunque diagnosticare il Covid, per poco più di due settimane».

L’area in cui i due medici friulani hanno operato è quella curda del Rojava – da sempre invisa al Governo di Damasco – che abbiamo imparato a conoscere per il ruolo fondamentale giocato nel contrasto all’Isis (ben presto dimenticato dall’Occidente) e per uno straordinario esperimento di autogoverno. Un territorio che ha subito anche l’occupazione turca e che da luglio 2020 – a causa della mancata proroga, su pressione di Cina e Russia, della risoluzione 2504 delle Nazioni Unite che negli ultimi 6 anni aveva consentito l’ingresso di aiuti umanitari – ha difficoltà nell’approvvigionamento di medicinali e cibo. Anche l’arrivo dei vaccini è un miraggio, un percorso ad ostacoli pure per il progetto Covax, l’iniziativa dell’Oms per la distribuzione globale ed equa dei vaccini.

Il ponte di barche sul Tigri, tra Iraq e Siria. Da qui, prima dello stop Onu (voluto da Cina e Russia) passavano gli aiuti umanitari

Il ponte di barche sul Tigri, tra Iraq e Siria. Da qui, prima dello stop Onu (voluto da Cina e Russia) passavano gli aiuti umanitari

Guardare il mondo dalle aree di crisi

«È un privilegio – racconta il medico – poter lavorare in questi contesti, vedere con i propri occhi quel che accade, essere d’aiuto. Si resta legati per sempre a un popolo, tanto più oggi che con strumenti come whatsapp si può rimanere in contatto, ho potuto rivedere colleghi, infermieri e traduttori. Ero stato nel nordest della Siria nella fase delicata della liberazione di Raqqa, la città che era diventata roccaforte dello Stato islamico. Oggi la situazione è più rilassata, ma gli equilibri sono precari e il contesto può cambiare velocemente. Di ricostruzione se ne vede pochissima, la devastazione è ancora impressionante».

«L’ong “Un ponte per” – prosegue Di Bartolomeo – , presente in quest’area dal 2015, gode di grandissima fiducia sul territorio, insieme al partner locale, la Mezzaluna Rossa Curda, negli anni ha realizzato molto, noi abbiamo contribuito all’avvio delle tre terapie intensive Covid, nelle città di Derek, Tabqa e Mambij. Le criticità sono numerose, a partire dalla formazione del personale locale, basti pensare che se in Italia tra i malati Covid che vengono intubati la mortalità è del 30%, in contesti come lo Yemen tale percentuale arriva a sfiorare anche il 90%. Questo per dire che non basta aprire un reparto di rianimazione, serve molto altro. In ragione di ciò, quello che cerchiamo di fare è lavorare avendo come obiettivo standard elevati, il più possibile vicini ai nostri. Negli anni la cooperazione umanitaria è cambiata molto, è finito il tempo della “medicina eroica” in cui si partiva all’insegna dell’“andiamo e facciamo, sarà sempre meglio di niente”, al contrario, si traccia una linea di qualità al di sotto della quale non si può stare».

Gli chiediamo delle persone che ha incontrato, la voce e gli occhi si aprono in un sorriso pieno di emozione. «In questo lavoro incroci storie che ti fanno capire quanto il nostro benessere sia una bolla – spiega Di Bartolomeo –. Penso a un’amica farmacista trentenne che mi ha confidato di sentirsi come se addosso di anni ne avesse cinquanta, sulle sue spalle ha il mantenimento della famiglia, ne va fiera, ma è un peso complicato da portare, i suoi fratelli sono riusciti a raggiungere l’Europa tramite le rotte migratorie che ben conosciamo, viaggi pericolosissimi e dall’esito incerto, ma che rappresentano l’unica speranza di futuro per tante famiglie. Se si cercasse di capire quello che accade in Siria, se si avesse idea della devastazione di questi Paesi, lo sguardo dell’opinione pubblica sul fenomeno dell’immigrazione sarebbe ben diverso, più umano. Ho vissuto diversi contesti di guerra, ma alla sofferenza non ci si abitua mai».

Intanto le preoccupazioni del regime siriano sono ben altre, domenica scorsa, infatti, è stato annunciato che il 26 maggio si terranno le elezioni presidenziali, le seconde da quando il Paese è in guerra. Elezioni non libere e dall’esito scontato.

Anna Piuzzi

Articolo pubblicato sul settimanale diocesano di Udine, La Vita Cattolica, edizione del 21 aprile 2021.

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