Sin dal lockdown si è parlato – anche in ragione delle possibilità offerte dallo smart working – di rinascita dei borghi spopolati e di “occasione” per la montagna e le aree interne alimentata da un desiderio di vivere in contesti dove la densità abitativa sia più rarefatta. Ma bastano questi due elementi per rendere concreta tale possibilità? Decisamente no.
Ne ho parlato con Giovanni Carrosio, sociologo dell’ambiente del territorio dell’Università di Trieste, tra gli autori delle “parole chiave” contenute in questo prezioso volumetto, «Manifesto per riabitare l’Italia» (Donzelli). Qui sotto trovate l’intervista e un pezzo sull’esempio virtuoso di Topolò/Topolove. In redazione a Vita Cattolica le sollecitazioni di Carrosio ci sono sembrate davvero interessanti, così le abbiamo sottoposte ad alcuni Sindaci della nostra montagna per dar vita a uno spazio di riflessione sulle pagine del giornale. Sul numero in edicola prendono la parola la sindaca di Prato Carnico, Erica Gonano, e il primo cittadino di Stregna, Luca Postregna. E il professor Mauro Pascolini, coordinatore dell’Officina per la Montagna dell’Università di Udine.
Intanto ecco l’intervista con Carrosio sul numero di mercoledì 30 settembre 2020 de «La Vita Cattolica»
Carrosio: «Per far vivere i territori serve ripensare infrastrutture e servizi»
È tempo, ora più che mai, di consapevolezza. Serve capacità di pensiero, collettiva, per raccogliere l’eredità della pandemia e insieme ad essa anche le sfide e le opportunità che ci offre. Una su tutte quella del rilancio – ma per davvero – delle aree interne, attraverso cui far rinascere la montagna, invertendo la rotta dello spopolamento. Abbiamo imparato che lo smartworking è un’opportunità importante, ma da sola non può bastare. Ne abbiamo parlato con Giovanni Carrosio, sociologo dell’ambiente e del territorio dell’Università di Triste, esperto di transizione energetica, questioni ambientali, sviluppo rurale e coesione territoriale.
Professore, la pandemia come opportunità, lo è davvero?
«Durante il lockdown il tema della pandemia come evento capace di modificare radicalmente le nostre traiettorie di vita e di pensiero, è stato molto di moda, innescando il dibattito sul rapporto tra quella serrata e il nostro modo di vivere e di abitare. La posizione prevalente era “nulla sarà come prima”. Su questo sono stato sempre molto critico, ma certamente convengo sul fatto che la pandemia, scremata di tutta la sua tragicità, sia un’occasione da non sprecare, in cui tante cose che prima non si potevano nemmeno dire, ora sono diventate esigibili».
Una su tutte, l’inversione di rotta rispetto all’inurbamento.
«Per trent’anni le politiche sono state costruite sulla convinzione che l’inurbamento fosse un processo immodificabile. Ora invece, nell’opinione pubblica, c’è l’idea che vivere al di fuori dei grandi agglomerati può tornare ad essere una scelta di vita, soprattutto in forza delle possibilità offerte dallo smartworking».
Sembra però esserci in agguato un “ma”.
«Dal mio punto di vista non è una traiettoria inevitabile, nel senso che, per fa sì che questo accada, bisogna fare delle scelte: modificare il modo in cui pensiamo all’infrastrutturazione del nostro Paese, alla collocazione dei luoghi della cultura, alla localizzazione delle università, degli ospedali e così via. Qui si apre una battaglia culturale e politica: se queste decisioni vengono prese possiamo allora parlare di ripopolamento delle aree interne, ma se, al contrario, si va in un’altra direzione è difficile che il comportamento di pochi riesca a dettare l’agenda. Lo spazio di possibilità che si è aperto va riempito di volontà politica».
C’è anche la questione ambientale.
«Sì, perché oltre alla ricerca di zone più rarefatte dal punto di vista della densità abitativa, dove esistono naturalmente delle forme di distanziamento sociale, c’è il tema, non nuovo, del cambiamento climatico. Le città stanno diventando sempre più calde, le persone cercheranno quindi sempre di più territori “in vantaggio climatico”. Ma anche qui ci sarebbe bisogno di una politica lungimirante per dar vita a un Paese policentrico, un’Italia cioè sempre più diffusa anziché concentrata».
Molte aspettative ruotano attorno al Recovery Fund.
«In Italia abbiamo un ministro, Giuseppe Provenzano, che si occupa di meridione e di coesione territoriale, quindi anche di aree interne, e che, a differenza di molte altre figure che hanno ricoperto quel ruolo, è sensibile a questa tematica e si sta impegnando perché una buona parte dei fondi sia utilizzato per immaginarsi delle politiche di deconcentrazione della popolazione sul territorio ».
Cosa serve perché favorire l’auspicato policentrismo territoriale?
«Il grande deficit che affligge le aree interne in questo momento riguarda i diritti di cittadinanza. Negli ultimi trent’anni si è ragionato secondo la logica delle economie di scala, tagliando servizi dove in termini economici non c’erano le garanzie della loro sostenibilità. Non c’è una determinata quota di bambini? Chiudo la scuola. Non c’è un sufficiente numero di parti? Chiudo il punto nascita. Per il reinsediamento bisogna invertire rotta: ideare una scuola innovativa, attrattiva, un modo nuovo di organizzare i punti nascita nei territori, una mobilità pubblica adeguata. Serve un investimento coraggioso capace di innescare un cambiamento. In Italia ci sono già esperienze che vanno in questo senso, interessantissime ed efficaci, ma purtroppo sporadiche».
Questo richiede che anche i territori si mettano in gioco in maniera propositiva.
«Certamente, devono uscire da una logica difensiva e rivendicativa che chiede il mantenimento dei servizi “dove sono e come sono”, una mentalità molto presente in Friuli-Venezia Giulia. La logica vincente è ripensarsi, mantenere sì i servizi, ma renderli attrattivi su territori difficili».
La nostra regione, negli anni, sembra aver fatto un percorso in parte inverso, ad esempio tagliando i servizi soprattutto per quel che riguarda la sanità.
«Sì, e colpisce molto perché il Friuli-V.G. ha fatto scuola nel mondo per come si possa fare medicina di territorio, penso ad esempio all’esperienza delle “micro aree” di Trieste: declinata sulle aree interne quell’esperienza potrebbe essere capace di mantenere una prossimità dei servizi con le persone che vivono nei luoghi».
Una questione che tiene banco è quella dei punti nascita.
«La questione non è “punto nascita sì” o “punto nascita no”, sarebbe più produttivo ragionare sulle possibilità di una medicina di territorio. Ammesso che si debba chiudere il punto nascita, bisogna allora avvicinare dei servizi alla donna incinta: incidere di più con la pediatria di iniziativa, con l’ostetrica che sta sul territorio, con l’infermiere di comunità. E poi c’è un altro passaggio da fare con urgenza».
Quale?
«Abbandonare la retorica secondo cui l’immigrazione rappresenta la fine dell’identità. Mi ha molto impressionato il fatto che il vicepresidente del Consiglio regionale nei giorni scorsi abbia girato la Carnia per raccogliere firme contro “l’invasione”, chiamandola addirittura “sostituzione etnica”. La chiusura all’arrivo di chiunque è una condanna. I numeri sono chiari e ci dicono che o arriva gente da fuori – che può essere il triestino, lo sloveno, ma anche il congolese – oppure anche le identità materiali di questi luoghi moriranno».
Identità materiali, dal paesaggio al formaggio tipico?
«Sì, quei beni che chi vive lì riproduce da secoli e che con lo spopolamento si degraderanno sempre di più. In altri luoghi d’Italia, dove i migranti sono arrivati e si sono inseriti nelle filiere locali del lavoro, dall’allevamento alla cura del bosco, sono state messe in sicurezza le identità di quei territori. Chi è ad esempio a lavorare, all’interno della filiera del Parmigiano Reggiano, negli allevamenti? Soprattutto indiani e pachistani. Mi rendo conto che, in questo momento, sia molto difficile uscire dalla retorica dell’invasione, ma è necessario farlo».
Anna Piuzzi
Topolò/Topolove. L’ostinato borgo che sta rinascendo grazie alla cultura e alla rete
È una storia di tenacia quella di Topolò/Topolove, innervata da una straordinaria capacità di desiderare e di costruire con ostinazione il proprio futuro. Sulla strada di Clodig, a Grimacco, il paese lo si vede apparire, come una luminosa sorpresa, nel verde dei boschi della valle del torrente Coderiana. Eppure proprio qui la storia ha infierito più che altrove, con violenza. Il confine con l’allora Jugoslavia si fece all’improvviso cortina di ferro, e da allora a Topolò non si poté più fare una lista innumerevole di cose: non coltivare, nemmeno ospitare persone nelle proprie case, vietato anche scattare una fotografia nei boschi. Così, come un’emorragia, l’emigrazione ha fatto il resto, il 90% della popolazione se n’è andato per vivere una vita che potesse dirsi normale.
Ma dicevamo della tenacia e della forza delle idee. Da ventisette anni il paese è lo spazio in cui prende vita un laboratorio a cielo aperto: «Stazione Topolò» che nel nome porta con sé la volontà di lasciarsi alle spalle un passato di chiusura non voluta ed essere al contrario crocevia di persone, pensiero e popoli. Ed è l’arte a farla da padrona perché qui si è scelto di curare le ferite con il balsamo della bellezza, così a luglio (nel 2020 eccezionalmente a settembre a causa della pandemia) il piccolo borgo ospita artisti da tutto il mondo e, di anno in anno, è diventato un punto di riferimento per chi desidera sperimentare, innestando la propria arte in una realtà dal tessuto culturale arcaico che ha resistito agli urti della storia. E ora questa dedizione nel coltivare la cultura sta dando frutto, anche grazie alla tecnologia. Topolò, infatti, si sta ripopolando. A raccontarcelo è Moreno Miorelli che della Stazione è – insieme a Donatella Ruttar e Antonella Bucovaz – direttore artistico. «Fino a non molto tempo fa – spiega – a Topolò abitavamo, come residenti fissi, in tredici. Ora, nel giro di appena due anni, siamo in ventuno, le otto persone che hanno scelto di venire a vivere qui sono tutti giovani, singoli, coppie e una famiglia con due bambini, che tra l’altro a breve avrà un nuovo nato che ci farà salire addirittura a quota ventidue. E non è tutto, ci sono altre persone che stanno cercando casa. È questo il risultato dell’aver scommesso sulla cultura e sull’arte perché tutti coloro che si sono trasferiti – o che sono in procinto di farlo – sono attratti dal progetto culturale, hanno scelto Topolò perché qui c’è la “Stazione”. Certo, la tecnologia ha aiutato la realizzazione di questo sogno, perché sarebbe impensabile vivere qui senza internet che oggi, lo sappiamo bene, serve anche a lavorare a distanza, un aspetto questo che bisogna anzi potenziare».
Un lavoro dunque lungo e ostinato, ma che può insegnare molto anche ad altri territori. «Abbiamo acceso i riflettori sul nostro borgo – continua Miorelli – e l’interesse che ha suscitato è stato straordinario, le rete di collaborazioni è vastissima dalla Spagna all’Olanda. L’ultima in ordine di tempo riguarda un gruppo di architetti dello studio Wild, di Amsterdam, che sta cercando di acquistare un rudere in una posizione davvero molto bella per trasformarlo in una casa di produzione culturale aperta a tutti. E c’è anche molto altro che si sta muovendo». Nelle tre settimane della Stazione 2020, poi, a Topolò c’è stata anche Radio France international.
Anche noi, in occasione della Stazione, siamo saliti a Topolò in una splendida giornata di sole, vederla abitata da giovani artisti, ma anche raggiunta da tante persone che volevano godere di performance, incontri, concerti e molto altro ancora in un luogo a dir poco suggestivo allarga davvero il cuore. Qui, infatti, tutto si svolge nelle piazzette, lungo le vie, nei prati nel bosco e nelle case private, utilizzando quello che c’è, senza stravolgere il luogo che resta, appunto, motore principale e non scenario passivo di quel che accade.
Anna Piuzzi
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