Sono in fondo agli occhi di ognuno le immagini potenti di quel 9 novembre 1989. Immagini che allora ci lasciarono increduli. La televisione portava nelle nostre case le urla festanti di una città in visibilio, insieme alla musica e alla gioia incontenibile di chi, dopo aver sofferto e resistito, afferrava finalmente con le proprie mani la libertà. Crollava il muro di Berlino e con esso la cortina di ferro, quella ferita aperta che aveva lacerato tanto a lungo il continente europeo. Ma oggi – a trent’anni da quella notte, al tempo dei sovranismi – riusciamo anche a rintracciare le aspettative di allora? Ne abbiamo parlato con lo storico udinese Guido Crainz, ordinario di Storia contemporanea all’Università di Teramo, autore di numerosi saggi, di prossima uscita una collettanea proprio su questo tema.
Professor Crainz, che cosa ci consegna uno sguardo lungo 30 anni sulla caduta del muro di Berlino?
«C’è una cosa che non possiamo dimenticare. Insieme al muro crollarono dei regimi orribili. Per quanto possano non piacerci le attuali politiche di Paesi come Ungheria, Polonia o la Russia di Putin, è stata una grande liberazione».
Sembra seguire un «ma», forse parecchi…
«Allora c’era un grande entusiasmo che durò a lungo. Ricordo il 2004 con l’allargamento dell’Europa, e poi il 2007 quando, in Friuli Venezia Giulia, all’insegna di Schengen, caddero, a Gorizia, gli ultimi muri. Quelle grandi speranze sono andate largamente deluse. Il clima dell’89 è condensato nella sciocchezza sostenuta dal politologo statunitense Fukuyama che parlò di “fine della storia”. Intendeva cioè la fine dei conflitti e il trionfo della democrazia liberale. Oggi la democrazia liberale è in discussione, e non solo nei paesi ex comunisti».
Anche il Friuli VG deve fare i conti con quelle illusioni?
«Certo, forse anche di più. Quando l’89 arrivò nella nostra regione trovò un terreno molto ben arato, il muro, infatti, cadde quando l’Alpe Adria era già una significativa realtà di dialogo e di cultura tra Paesi diversi. Poi, poco dopo l’89, divenne un inferno proprio quel Paese che a molti era sembrato il “paradiso del socialismo”, la Yugoslavia. Era considerata la “Svizzera” dei Paesi dell’Est e invece si trasformò in un “Libano”. Non immaginavamo che la guerra potesse ripresentarsi in Europa con così tanta ferocia».
Perché il sogno europeo ha subito così tante batoste?
«Il primo motivo me lo fece notare l’allora presidente della Regione, Adriano Biasutti, che intervenendo a un dibattito a Roma, espresse la preoccupazione che prevalesse una visione economica ed economicistica dell’unione, basata troppo sui vantaggi materiali che ne sarebbero derivati: gli imprenditori guardavano a nuovi mercati e l’Est sognava di assumere gli stili di consumo dell’Ovest. È stato possibile solo fino a un certo punto. E poi è mancata la cultura».
Che cosa intende?
«Parto da un esempio friulano: il Mittelfest. È una straordinaria eccezione quando, invece, dovrebbe essere la normalità. È così che si fa l’Europa. All’indomani dell’unificazione tedesca, un grande intellettuale come Peter Schneider disse che si rischiava di avere una “cortina di ferro senza il comunismo” perché non vedeva fervore di dialogo fra intellettuali di Paesi che fino ad allora si erano combattuti come, invece, era accaduto dopo la Seconda Guerra Mondiale. A questo è corrisposto l’emergere dei sovranismi che altro non sono che i vecchi nazionalismi».
Come hanno fatto a insinuarsi tra le pieghe del sogno europeo?
«Nel ’45 le macerie della guerra erano lì a dire che i nazionalismi andavano superati e costruita la pace. Nell’89 a Est crollarono regimi oppressivi che si ammantavano di internazionalismo e che aveva conculcato le tradizioni nazionali. Così, accanto alla giusta appartenenza nazionale, riemersero pure i nazionalismi esasperati. E noi stiamo facendo troppo poco per invertire quelle tendenze. In Polonia e in Ungheria i Kaczynski e gli Orban riscrivono i libri di storia sulla base di una rilettura vittimistica e vendicativa. Che Europa può nascerne? La mia idea è dunque che è mancata più la cultura che la politica. Eppure, già allora, nel ’90, c’era chi si allarmava. Bronislaw Geremek, braccio destro di Walesa, temeva nazionalismo, populismo e l’emergere del desiderio di governi forti».
Voci rimaste inascoltate…
«Pensavamo che l’Europa fossimo noi. Uno scrittore ungherese del dissenso, György Konrád, diceva che l’Europa ha vissuto 30 anni con le spalle rivolte al Muro di Berlino. E Vaclav Havel, ammoniva sul fatto che le istituzioni europee erano state costruite sulla divisione dell’Europa e dunque per una vera unione andavano ripensate insieme. È mancato anche quello sforzo, le abbiamo semplicemente “esportate”».
Da dove passa il riscatto del sogno europeo?
«Dalla cultura. In nessun Paese, ad esempio, si insegna storia europea, che abbia cioè un punto di vista europeo. Si deve partire dalla scuola dell’obbligo, non basta il programma Erasmus per una profonda comprensione reciproca».
Il Friuli Venezia Giulia che ruolo può giocare?
«Un ruolo, come in passato, di laboratorio di dialogo, all’insegna della cultura e dell’apertura. Nel Novecento il nostro confine orientale è stato teatro di grandi tragedie. In qualche modo però si era iniziato un dialogo. In occasione dell’istituzione della giornata del ricordo, anche i media, il Messaggero Veneto e la Vita Cattolica, fecero moltissimo per dar voce a quell’impegno. C’era l’idea di voler capire anche le sofferenze degli altri, comprendere una storia in cui non si è stati solo vittime o solo carnefici, in momenti diversi tutti siamo stati entrambe le cose».
Oggi non siamo più quel laboratorio?
«Purtroppo no. Quel dialogo culminò nel 2010 con il “Concerto dell’Amicizia” che vide insieme i presidenti di Slovenia, Croazia e Italia. Da allora siamo tornati pericolosamente indietro. Quando sento che il presidente, italiano, del Parlamento europeo grida “Viva Zara italiana” mi vengono i brividi. Provo lo stesso quando studiosi come Raoul Pupo – recentemente insignito, più che meritatamente, del “Premio Friuli Storia” e che pubblica libri sull’esodo dal 1986 – sono accusati di negazionismo da parte della Regione. È grave che chi ha lavorato per l’apertura e contro la rimozione, oggi, di fatto, venga messo all’indice».
A far vacillare l’Europa c’è anche il tema delle migrazioni. Il Muro di Berlino serviva a trattenere i propri cittadini, oggi si costruiscono muri per impedire ad altri di entrare.
«Le chiusure si combattono capendo due problemi. Da una parte i flussi vanno regolati con democrazia. Dall’altra non ci deve sfuggire che proprio nei Paesi dove ci sono pochi immigrati c’è una paura ingigantita del fenomeno. Questo perché quei Paesi – come Polonia e Ungheria – si sono svuotati dei propri giovani, emigrati altrove. È chiaro che qui, anche un solo migrante genera preoccupazione. Credo dunque che serva una regolazione delle economie interne all’Unione europea che cerchi di attenuare questi scompensi».
Intervista pubblicata sul numero 44 del settimanale diocesano «La Vita Cattolica»
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