Comunità di Sant'Egidio - Trieste

Tra pachistani e afghani per la fine del Ramadan con gli amici di Sant’Egidio

Ho detto di sì subito. D’istinto. Perché ho bisogno di storie belle da raccontare. Perché c’è bisogno di qualcuno che le racconti. Perché sempre e comunque – e sopratutto in questo tempo così opaco – bisogna inseguire la luce che c’è.

Così quando Federica Marchi, della Comunità di Sant’Egidio di Trieste, mi ha invitata per giovedì 16 luglio alla cena di fine Ramadan, non ci ho pensato due volte: ho accettato di buon grado. L’iniziativa infatti era organizzata dai Giovani per la pace per i profughi afghani e pachistani.

Certo è che, avventurandomi in una Trieste rovente e salendo via di Romagna, non immaginavo che la porta del civico 22, si sarebbe spalancata su una realtà così articolata e tanto generosa, regalandomi un’esperienza emozionante e ricca di incontri.

Casa Cramer

Inizio bene, mi sento accompagnata da un pizzico di fortuna perché, giunta a destinazione, c’è un ragazzo che suona il campanello: «Ciao! Vai alla Comunità di Sant’Egidio?». Ramzan sorride e mi dice di seguirlo. Scoprirò di aver beccato al primo colpo il cuoco della serata.

Intanto salgo le scale di questa bella palazzina che, già per conto suo, ha una storia che meriterebbe di essere raccontata a parte. Prima convento (c’è infatti anche una piccola cappella interna) venne ristrutturata da Claudio Cramer e sua moglie Duja Kaucic che vi abitarono dal 1975 al 2010, anno in cui lui morì. La professoressa Kaucic, nel 2014, dopo un’attenta ricerca tra le realtà benefiche triestine, donò “casa Cramer” alla Comunità di Sant’Egidio.

Nell’operoso mondo della Sant’Egidio

Entro in una bellissima sala, inondata dal profumo di spezie e da un chiacchiericcio vivace. Chiedo di Federica. Mi indicano la cucina. La trovo sorridente tra ragazzi, pentole e vaschette di alluminio colme di riso. Ci presentiamo perché fino a quel momento la nostra reciproca conoscenza passa solo attraverso la rete, con Facebook. Mi fa conoscere tutti. Stringo tante mani e vengo travolta da un susseguirsi di sorrisi. Prometto che ascolterò le parole di ognuno.

Prima però Federica mi guida attraverso la casa e, di stanza in stanza, scopro progetti ed idee. La struttura verrà inaugurata a settembre, ma ci sono già due aule, dove si tengono lezioni di italiano per stranieri, e un piccolo ambulatorio, anche questo già operativo, per le visite gratuite fatte da medici volontari. Non manca un magazzino dove sono raccolti generi alimentari e abbigliamento. Ma la meraviglia è il giardino interno con il pergolato di vite, i rosai e un’ancona votiva. «Vogliamo sistemarlo al meglio – mi spiega Federica – così, soprattutto in queste giornate calde, sarà un luogo gradevole per chi aspetta di essere visitato».

Ramzan, il Pakistan e (soprattutto!) il riso biryani

Comunità di Sant'Egidio -  Ramzan

Ramzan

Ma sono qui per raccontare e allora non posso che iniziare da Ramzan che per un attimo abbandona i fornelli, così ci sistemiamo all’ombra, in giardino. Ha 28 anni, viene dal Kashmir e manca da casa da quattro anni. La sua storia è quella di tanti: un peregrinare lunghissimo, attraversando un paese dopo l’altro, a partire dall’Iran, nel 2010. «Mi sono fermato un anno e otto mesi in Grecia – racconta – poi per sei mesi sono rimasto in Ungheria per arrivare in Italia solo nel 2013». Accolto dalla Caritas di Trieste prima, e inserito in un progetto Sprar poi, Ramzan è approdato alla Comunità di Sant’Egidio spinto dal desiderio di «imparare e studiare l’italiano». «Qui – prosegue – non ho trovato solo una scuola, ma un posto dove incontrare delle persone amiche». Mi faccio raccontare della situazione che ha lasciato. Abita ad appena tre chilometri dal confine indiano, una zona caldissima dove resta vivo un conflitto nato nel 1947, all’indomani della formazione dei due stati, tra Islamabad e Nuova Delhi e che, negli ultimi vent’anni, ha fatto 80 mila morti. Mi racconta dei bombardamenti, della famiglia rimasta là e che in questi giorni – a causa del volo di droni – ha dovuto abbandonare la propria casa.

Lasciamo da parte i cattivi pensieri e gli chiedo cosa ci ha preparato. «Un piatto famoso in Pakistan, ma che piace tantissimo anche agli italiani che vivono con me – spiega Ramzan -: il riso biryani». Mi descrive passo passo come si cucina, qui vi basti sapere che ci vogliono cipolle, zenzero, pepe verde, aglio e pollo. Prima di tornare ai fornelli mi dice: «È importante stasera festeggiare e mangiare assieme a voi».

Insegnare italiano

Cosimo Perrini e Franca Volio

Cosimo Perrini e Franca Volio

Incuriosita da quello che mi ha raccontato Ramzan, mi metto alla ricerca dei volontari che qui si occupano dell’insegnamento dell’italiano. Distolgo così anche il signor Cosimo Perrini dalla preparazione della cena. «Qui - mi spiega - i ragazzi vengono a lezione il venerdì, dalle 18 alle 20, e la domenica, dalle 10 alle 12. Nell’anno che si è appena chiuso abbiamo avuto a lezione studenti che andavano dall’analfabetismo totale, quindi non scolarizzati neanche nel loro paese di origine, a studenti scolarizzati, alcuni anche con un buon livello di istruzione. C’è poi un corso di italiano un po’ più avanzato che consente di accedere anche al rilascio dell’attestato di conoscenza di lingua e cultura italiana».

Mi racconta di un’esperienza positiva – «per noi e per loro» dice – tanto da definire le ore di lezione «un momento rigenerante». Ed è un’esperienza positiva anche per i ragazzi che alla conclusione del corso hanno chiesto di proseguire con le lezioni anche per tutto il mese di giugno. «È bello entrare in contatto con persone di altre realtà - continua Cosimo - ed è qualcosa che induce a riflettere: il mondo sta sprecando una risorsa importante. Questi ragazzi non devono essere considerati rifugiati, ospiti o intrusi. Sono giovani, forti, sani, capaci ed intelligenti: una risorsa preziosa su cui investire, non qualcosa che erode le nostre posizioni di benessere già acquisite». In prevalenza si tratta di persone provenienti da Pakistan ed Afghanistan (alcuni di loro arrivano dal Senegal e dalla Repubblica Centrafricana) e la scuola ha anche «scongelato delle situazioni collegate all’appartenenza nazionale, si sono così un po’ allentate le distanze».

La pace possibile delle donne

Ma non c’è solo la scuola di via di Romagna. Nella parrocchia di Santa Teresa del Bambin Gesù, in via Matteotti 12, c’è infatti anche la Scuola della pace, dedicata ai bambini e animata da giovanissimi volontari delle scuole superiori. Mentre i bambini trascorrono qui un paio d’ore, i genitori, in particolare le mamme, possono seguire le lezioni di italiano. Franca Volio è una delle insegnanti: «Ho iniziato quest’anno, si tratta di un’esperienza bellissima. Sono in prevalenza donne e provengono per lo più dai Balcani. Hanno tanta voglia di imparare. In gran parte dei casi vivono a Trieste già da tanti anni, ma sono rimaste chiuse nel loro gruppo linguistico, tanto che, a un certo punto, si sono ritrovate ad avere bisogno dei figli perché non erano in grado di comunicare. In questi mesi le ho viste fare dei progressi grandissimi. Ma ciò che più è importante è che riusciamo a metter insieme donne di nazionalità che hanno vissuto la guerra: kosovare, serbe, bosniache, sono tutte insieme in amicizia, sentita, vera. Un clima bellissimo».

L’esercito sorridente dei «Giovani per la pace»

Giovani per la pace - Trieste

Giovani per la pace – Trieste

Dicevamo della Scuola della pace. Ride di gusto Giulia, una delle volontarie che anima le attività con i bambini: «Facciamo tante belle cose!». 18 anni, questa ragazza ha conosciuto la Comunità di Sant’Egidio a scuola, nel 2013, come tanti suoi compagni perché Federica insegna Religione in un’istituto della città. «È un doposcuola gratuito per bambini in situazione di difficoltà, principalmente immigrati. Li aiutiamo a fare i compiti, giochiamo e facciamo la merenda assieme». Agnese invece ha cominciato d’estate, quando si organizzano delle gite per dare la possibilità a questi bimbi di visitare posti che probabilmente non avrebbero occasione di vedere. «Io presto servizio tutti i venerdì. Si tratta di due ore che potrei spendere in altro modo, ma mi piace quello che faccio. Quando arrivo alla Scuola della pace i bambini sono là che mi aspettano, non una persona a caso, ma proprio me, mi abbracciano, abbiamo un rapporto speciale. È bellissimo».

Ma non ci sono solo ragazze. Ci sono infatti anche Pietro, 15 anni, Marco e Daniele, diciottenni entrambi. «La prima volta – spiega Pietro – ho accettato l’invito di Federica a darle una mano con la festa di Natale, mi sono divertito tantissimo e ho deciso di partecipare più attivamente, cosa che faccio ancora e di cui non mi pento assolutamente». Marco invece ha seguito le orme del fratello, volontario della Comunità. «Mio fratello faceva il volontario qui da cinque anni - spiega - ma io non ne sapevo niente, sono rimasto abbastanza “scioccato” quando me lo ha detto. All’inizio non ero molto interessato, ma poi ho dovuto scrivere un articolo per “Il Piccolo” e a quel punto mi sono detto che potevo anche cominciare a dare una mano più attivamente». Anche Daniele è approdato alla Scuola della Pace, ormai quattro anni fa, grazie a un insegnante («una complice di Federica» sottolinea ridendo). «La mia prima volta è stata molto intensa perché con i bambini abbiamo fatto visita all’Itis, un istituto per anziani, facendo delle attività per intrattenerli. Da lì è nata una vera e propria passione. Oltre alle attività consuete c’è ad esempio anche la colonia estiva, conclusasi una settimana fa. Abbiamo portato i bambini a Campo Sacro, le attività era incentrata sull’approfondimento della vita e il pensiero di Malala, Madre Teresa di Calcutta, Gandhi e Martin Luther King per spiegare loro il significato della pace. Lo considero l’aspetto più importante, e cioè consegnare a questi bambini una coscienza e una serie di valori con cui possano affrontare la vita».

Parola di prof!

In disparte, ad ascoltare con soddisfazione i suoi ragazzi, c’è Federica Marchi: «Il bello dei “Giovani per la pace” è che dimostrano che non è vero che i giovani non vogliono impegnarsi per gli altri nel sociale. Ci mettono invece la faccia, il tempo e il coinvolgimento personale. Stamattina siamo qui a lavorare in tanti, dalle 9.45, ma loro lavorano davvero tutto l’anno. C’è un coinvolgimento totale sulle attività, ma anche rispetto alle preoccupazioni della vita della Comunità, anche il centro dove siamo è molto aiutato dall’impegno più giovani. Ad esempio il pranzo di Natale, che quest’anno è stato caratterizzato dalla partecipazione di 400 poveri della città, ha visto Giulia impegnarsi e raccogliere dei fondi a scuola, ben 600 euro. Questo significa dire agli altri: “Io faccio questo, vieni con me?”. Non è una cosa né semplice, né scontata perché implica il fatto di esporsi ai giudizi degli altri».  «La comunità di Sant’Egidio è nata negli anni Novanta da un gruppo di sedicenni, è bello vedere oggi tanti ragazzi che si appassionano e con tanto amore ci aiutano. Non solo, portano alla comunità anche le proprie idee innovative, quindi non si limitano a ripetere quello che facciamo noi».

Il gruppo del Giovedì

Giovani per pace - Rosaria, Paolo, Ilaria e Federica

Giovani per pace – Rosaria, Paolo, Ilaria e Federica

Da sempre la Comunità di Sant’Egidio vive l’incontro con i più poveri, con quelli che abitano (per dirla come Papa Francesco) le periferie esistenziali della nostra società. Così faccio conoscenza con il “gruppo del giovedì sera”, composto da ragazzi universitari che incontrano le persone senza fissa dimore. «Partiamo dalla sede – spiega Paolo Parisini -, d’inverno ad esempio portando te caldo, merendine e coperte. Scendiamo nella zona intorno alla stazione centrale dove dormono soprattutto le famiglie rom che vengono a fare il giro della mendicità qui a Trieste. Gruppi eterogenei, però conosciuti che ritornano in città più volte nel corso dell’anno, si tratta di una cinquantina di persone. Insieme ovviamente ad altre persone che dormono per strada e che fanno parte invece proprio del tessuto sociale triestino. Questo giro in realtà è un incontro di amicizia, l’idea è vedere la frontiera e con un rapporto personale capire con il tempo, senza la fretta di progetti su persone notoriamente sfuggenti, di capire se c’è la possibilità di costruire qualcosa». Mi raccontano di famiglie concrete, di voglia di uscire dalla povertà, di desiderio di ricatto.

Rosaria, 28 anni, da due anni con la Comunità di Sant’Egidio: «Distribuire il cibo nel nostro giro del giovedì è solo un aggancio per metterci a parlare di come vanno le loro giornate, per farci raccontare la loro vita. Di giovedì in giovedì si colgono delle sfaccettature importanti». Le fa eco Ilaria, studentessa originaria di Torino: «Quello che facciamo mi ha resa più consapevole di chi mi sta intorno. Fino a qualche tempo fa nemmeno io mi rendevo conto della presenza di queste persone. Poi quando cominci a viverle tutto diventa diverso».

Verso la cena in Via Sant’Anastasio

Di chiacchierata in chiacchierata si è fatta ora di cena. Ci si organizza, si inizia a caricare la macchina con tutto l’occorrente, dalle tovaglie colorate alle teglie di riso. Prima però una preghiera nella cappella della casa. Ci dirigiamo quindi verso la parrocchia di via Sant’Anastasio. Intanto Ramzan va in stazione per chiamare a raccolta i suoi amici. Molti di loro vivono nel “silos” in condizioni precarissime, non degne di un paese civile.

Nella grande sala parrocchiale ad accoglierci c’è il parroco, padre Renato Caprioli, clarettiano, originario di Rieti, ma ormai da anni imprescindibile punto di riferimento triestino per il mondo della solidarietà.

Vengo circondata dall’operosità, i ragazzi si mettono al lavoro e in un attimo questo piccolo esercito di volenterosi apparecchia le tavole e con l’aiuto di uno dei responsabili della comunità islamica prepara latte e datteri che serviranno per rompere il digiuno del Ramadan. I ragazzi afghani e pachistani arrivano alla spicciolata. Sono meno del previsto, qualcuno ha preferito l’incontro del Centro islamico, molti altri sono invece stati trasferiti, proprio in questi giorni, in altre regioni.

Cambiare sguardo, incontrare l’altro

Mi avvicino a padre Caprioli. Riconosco il sorriso di chi cerca e lavora per il dialogo. Parliamo di quella che ci si ostina a chiamare “emergenza profughi”. Sorride e mi dice che ha svolto il suo ministero per molti anni a Milano, ai tempi del cardinal Martini. «Lui ci ha insegnato che la tolleranza è il minimo che possiamo mettere in campo. Martini preferiva invece guardare al concetto di “meticciato”, quella necessità di imparare a crescere tutti insieme». Mi vengono in mente le parole di Ernesto Balducci: «Gli uomini del futuro o saranno uomini di pace o non saranno». Guarda la sala, i ragazzi che si mescolano, mi dice che c’è bisogno di «segni» come questo, che «solo la fraternità risolve i problemi». Come non essere d’accordo?

Il Ramadan è finito

In preghiera

In preghiera

Ramzan intona un canto che mi sembra di altri tempi, che porta lontano. Personalmente mi conduce a Sarajevo, alle giornate iniziate all’alba sotto il minareto della moschea Ferhadija. Poi arriva la preghiera, gesti antichi, ripetuti. Scatto qualche foto, guardo i volti di questi ragazzi, alcuni sono giovanissimi. Penso a quello che hanno vissuto sin qui, a quello che ancora li attende.

Il Ramadan è finito, si inizia dal latte e dai datteri. È stata una giornata caldissima e loro non hanno né bevuto, né mangiato per tutto il giorno. Portiamo il riso in tavola, ci sediamo tutti assieme.

Il riso è buonissimo, Ramzan è raggiante. A cena, di fronte a me, ci sono Adnan e Raja, hanno trent’anni e vengono anche loro dal Kashmir. Il primo faceva il poliziotto, l’altro il militare. È Adnan quello che parla di più, Raja ci tiene a precisare che il suo amico conosce meglio l’Italiano solo perché è qui da più tempo. Ridiamo. Adnan è via dal Pakistan da undici anni. Snocciola i paesi che ha attraversato: Iran, Turchia, Grecia, Montenegro, Serbia, Ungheria, Croazia e Slovenia. Come molti qui mi racconta dell’esperienza in Ungheria, è stato rinchiuso per mesi e mesi in un centro in condizioni disumane. Il pensiero corre al muro “anti immigrati” che questo Paese – fino a vent’anni fa costretto dietro la cortina di ferro – ha deciso e iniziato a costruire al confine con la Serbia. «Chi può voler vivere tutto questo se non costretto a fuggire da casa sua?» mi chiede Adnan.

Adnan e Raja

Adnan e Raja

Raja in Pakistan ha lasciato moglie e figli. Me lo dice con un velo di tristezza, non li vede da anni. Ma gli si illuminano gli occhi perché prima o poi, dice, li porterà in Italia. Ora ha i documenti e sta frequentando la scuola edile per imparare a fare il muratore. Un presente che per lui ha il sapore del futuro. Adnan invece – che al momento lavora all’Ausonia – sogna di aprire un negozio. Anche i suoi occhi brillano di speranza.

 

Faccio un giro per i tavoli, e ovunque barcamenandosi tra inglese e italiano, i ragazzi parlano tra loro, c’è anche un gruppetto di slovacchi ospite della parrocchia nell’ambito di un progetto di scambio.

È ora di rientrare. Saluto tutti, non dopo le foto di rito.

Mi metto in macchina e respiro a fondo gli ultimi scampoli di questa aria di mare. Attraverso il mio Friuli grata di mille cose, anche di questa silenziosa e lunga strada che mi porta a casa e lascia decantare nella notte le emozioni di questa splendida giornata.

Qui di seguito la gallery completa delle foto.

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