È un filo rosso prezioso quello che lega – nel suo lavoro di ricerca artistica – il passato al presente. Sta nel desiderio profondo di libertà ed emancipazione che attraversa la storia e si rende visibile nella vita di donne forti e determinate. Quel filo, Marta Cuscunà, lo cerca da sempre e lo tiene saldamente in mano. Non solo. Grazie alla sua straordinaria abilità narrativa ce lo porge con generosità: è la consapevolezza che solo una piena parità di diritti tra i generi farà progredire una società oggi così tanto in affanno. Alla vigilia dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna, ci troviamo nel bel mezzo dell’emergenza coronavirus. A isolarlo per primo in Italia, è stato un team di donne, un’eccellenza del bel paese, eppure parecchia stampa nostrana si è permessa di chiamare quelle ricercatrici – titolate tanto quanto i colleghi uomini – «le ragazze dello Spallanzani». Che fare dunque? Cosa insegna la storia? Quale ruolo rivendicare (ancora) oggi? L’ho chiesto proprio all’autrice e performer di teatro visuale, Marta Cuscunà. È infatti fresco di stampa – pubblicato dalla Forum Editrice Universitaria Udinese e sostenuto dalla Consigliera di Parità della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia – il volume «Resistenze femminili» che raccoglie la trilogia dei suoi testi teatrali su donne e uomini che, in tempi e luoghi diversi, hanno escogitato nuove forme di resistenza a una società sbilanciata al maschile («È bello vivere liberi!», «La semplicità ingannata» e «Sorry, boys»).
Marta, il tuo lavoro tiene insieme storie di donne diversissime che, in tempi lontani tra loro, hanno giocato un ruolo importante nella rivendicazione di un’uguaglianza dei diritti, dalla staffetta partigiana Ondina Peteani alle Clarisse di Udine del Cinquecento. Cosa ci restituisce questo viaggio?
«Innanzitutto la consapevolezza che i semi di questa rivolta delle donne per riuscire ad avere un ruolo nella società sono sparsi in diverse epoche, mentre nell’immaginario collettivo il femminismo e la rivendicazione dei diritti delle donne vengono fatti risalire quasi esclusivamente al ’68. È invece importante aver coscienza delle storie di tante donne che hanno coltivato questa utopia in epoche e contesti diversissimi».
È un’utopia dunque?
«Diciamo che è così che ce la rifilano, come un miraggio impossibile da raggiungere, invece le storie che ho incontrato sono vere e dunque possibili. Lasciano però l’amaro in bocca perché anche quelle lontanissime, penso proprio a “La semplicità ingannata” che approfondisce il tema della monacazione forzata e la presa di coscienza delle Clarisse di Udine, appunto nel Cinquecento, ci mostrano, purtroppo, analogie con la realtà contemporanea, a partire dagli squilibri che tuttora governano i rapporti tra uomini e donne».
Eppure, proprio quelle suore Clarisse ci mostrano il grande beneficio che la società potrebbe trarre dalla parità, loro all’epoca trasformarono il monastero in un centro di cultura.
«Soprattutto non si accontentarono delle briciole che il sistema patriarcale concedeva loro con l’obiettivo di farle stare buone e mantenerle comunque dentro quel sistema che, ovviamente, le discriminava. È un insegnamento che ci deve mettere in guardia: ogni sistema concede briciole per accontentare chi rivendica qualcosa, ma le briciole non bastano per un cambiamento radicale del modello sociale. In questo tempo di crisi su ogni fronte – ambientale, economico e umanitario – abbiamo la dimostrazione che il modello patriarcale, che per secoli ci siamo portati dietro, è fallimentare e ha bisogno di essere cambiato».
Non a caso anche in questi giorni di emergenza coronavirus i pregiudizi, derivanti da quel modello, non sono mancati…
«Certo, la vicenda delle ricercatrici dello Spallanzani, ad esempio, sorprende perché siamo abituati ad avere degli eroi uomini. Qui, invece, sono donne e, per di più, non sono da sole, ma lavorano in team, sono comunità… ecco dunque che il sistema ha bisogno di parole rassicuranti e allora chiama quelle ricercatrici “ragazze”. Non dovremmo mai dimenticare, come continua a ripetere un’intellettuale come Michela Murgia, che le storie che ci raccontiamo costruiscono il mondo in cui viviamo e viceversa. Narrare storie diverse da quelle a cui siamo abituati può aiutarci a costruire un mondo nuovo».
Quello che fai tu con la tua trilogia…
«Sì, infatti nasce anche dal desiderio di narrare esempi positivi per riappropriarsi dell’idea di femminismo».
E lo iscrivi in una dimensione comunitaria, Ondina Peteani, non fece la Resistenza per sé…
«Addirittura si mise a disposizione di un Paese che pensava di poter fare a meno delle donne. Le storiche che si occupano del contributo che le donne diedero alla Resistenza, fanno emergere come a loro non fosse richiesto nulla: sarebbero potute restare a casa aspettando che la guerra e la dittatura si risolvessero. Parliamo di giovani donne, Ondina di anni ne aveva appena 17, che riuscirono a capire che il proprio contributo era fondamentale per cambiare il Paese e che la democrazia a cui aspiravano doveva prevedere un ruolo diverso per la donna. Conclusa la Resistenza però i loro stessi uomini le fecero tornare al “proprio posto”».
E oggi – in mezzo a tutte queste crisi – c’è consapevolezza tra le giovani del ruolo da rivendicare?
«Credo di sì, la trilogia va in scena da dieci anni, e mai come ora la mobilitazione giovanile, penso ai movimenti per il clima, ha avuto giovani donne come leader che, analogamente a Ondina, prendono la parola, si fanno carico di questa responsabilità. Non è un caso che proprio in questi giorni ci siano, da parte di chi le avversa, vergognosi attacchi che giocano proprio sul loro essere donne, umiliandone il corpo. È una storia che si ripete, è il prezzo del prendere parola in un mondo maschile. In questi dieci anni anche il movimento femminista è cambiato, è più globale, è diventato un’alleanza fortissima tra le donne. Credo che siamo arrivati a un punto di cui, un giorno, leggeremo sui libri di storia, un punto da cui non si torna più indietro».
Anna Piuzzi
Intervista pubblicata sull’edizione del 4 marzo 2020 del settimanale diocesano di Udine «La Vita Cattolica»
Leave A Comment?