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Morte e vergogna

«Ma possibile che non abbiano ancora capito?». Me lo dice con noncuranza, dopo un «che pena!» (d’ufficio). Dovrei esserci abituata. Ma, di abituarmici, non mi riesce proprio. Tanto meno stamattina, mentre sto comprando il giornale e so che leggerò dell’ennesima mattanza in mare. A Lampedusa.

La domanda mi avvilisce, ma è chiara: come mai queste persone continuano ad attraversare il Mediterraneo, pur consce del rischio di morire? Gabriele Del Grande ce lo spiega con i numeri del suo progetto Fortress Europe: dal 1988, almeno 19.142 giovani sono morti tentando di entrare in Europa, sulle nostre frontiere. 6.835 nel Canale di Sicilia. Non erano folli loro. E non è folle chi, ogni giorno, ci prova ancora. A spingere la paura altrove è il desiderio, disperato, di una vita dignitosa, lontano dalla guerra, dalla fame, spesso dalle persecuzioni. Lontano da Paesi amati, nel profondo del cuore, ma dove, in molti casi, non esiste un briciolo di libertà. La dimensione di quel desiderio non ce la racconta tanto l’azzardo della traversata del Mediterraneo, quanto l’odissea infinita che la prelude. Prima di imbarcarsi sulle «carrette del mare» c’è il deserto. Ci sono le frontiere dei Paesi africani, dove la polizia chiede soldi per attraversare una linea. Dove la violenza è inaudita.

Quel calvario, lunghissimo, lo racconta Fabrizio Gatti, nel suo Bilal. A me, invece, lo hanno raccontato gli occhi di D., nel luglio del 2007, durante il servizio civile alla Caritas. Pensavo di essere abbastanza pronta ad accollarmi un primo colloquio da sola. E invece no. A tutto quel dolore, raccontato sottovoce, non si è pronti mai.

D., all’epoca aveva poco più di 18 anni, veniva dal Gambia e con sé aveva solo uno zainetto con dentro due magliette e un documento sgualcito dove l’opposizione al presidente Jammeh diceva che lui, D., era un perseguitato politico. D. aveva attraversato il Mediterraneo, partendo dalla Libia. Per arrivare a Tripoli ci aveva messo 6 mesi e poi lì, aveva aspettato a lungo, lavorando come uno schiavo. Quel ragazzo ossuto, con occhi enormi e dolenti, ma sorridente, felice di essere vivo, aveva vissuto l’indicibile per la sola possibilità, non la certezza, di un’esistenza in cui la parola libertà significasse qualcosa. E noi? Abbiamo davvero dimenticato tutto quello che la storia ci ha insegnato?  Tanto da non capire più la vita con la sua sete di dignità e di libertà? Le persone si muoveranno sempre, e sempre di più, perché viviamo in un mondo tremendamente diseguale. C’è da lavorare. E parecchio. C’è un sistema europeo da ripensare in termini di accoglienza e di cooperazione con i Paesi da dove i migranti partono. In termini di politica estera comune e, certo, anche di sicurezza. E da noi, in Italia, c’è una legge sull’immigrazione che va rifatta, senza ideologie, intelligente e lungimirante. Ci sono strutture come i Cie che sono una vergogna nazionale. C’è l’illogicità della condizione a cui sono costretti i richiedenti asilo. E c’è, in ognuno di noi, un po’ di «globalizzazione dell’indifferenza» da cancellare.

Intanto, per chi si allarma, vale la pena ricordare alcuni numeri snocciolati da Maurizio Ambrosini su lavoce.info, secondo cui gran parte di quanti sbarcano in Italia proseguono verso Nord: «I dati 2011 parlano di 571.000 rifugiati per la Germania; 210.000 per la Francia; 194.000 per il Regno Unito; 87.000 per la Svezia; 75.000 per i Paesi Bassi contro 58.000 per l’ Italia». E continua Ambrosini: «Se guardiamo al rapporto tra rifugiati e numero di abitanti, i dati ci dicono che  la Svezia supera i 9 rifugiati ogni 1000 abitanti, la  Germania si colloca sopra quota 7, i Paesi Bassi intorno ai 4,5, mentre l’Italia ne accoglie meno di 1».

Con il cuore a Lampedusa la speranza che dobbiamo accendere è che non vengano più giorni di sola morte e di sola vergogna.

 

 

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