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Il resto dell’Europa vuole solo siriani ed eritrei. E Rashid?

Dunque tutto come previsto. È bene soffocare qualsiasi timido entusiasmo di qualche giorno fa e registrare, invece, la messa in onda della nuova puntata di una lunga storia di responsabilità mancate. Oltre ad aver cancellato la parola «quote» – a favore di una più tranquillizzante «redistribuzione» – la Commissione europea (che si riunirà domani) ha inserito nel nuovo piano di accoglienza dei migranti una norma semplicemente grottesca. A essere «ricollocati» dall’Italia al resto d’Europa saranno solo «i richiedenti asilo che godono del regime di protezione nel 75% degli Stati membri». Quindi, dati alla mano, solo eritrei e siriani. Dunque un afghano ha patito meno di un siriano, ma forse qualcosa in più di un somalo? E i pachistani? I nigeriani, i maliani e liberiani? Su quale scalino sono messi in stadby? La piega in cui si nasconde la logica di tutto questo dev’essere davvero buia e parecchio nascosta. E naturalmente in tutto questo l’Italia è nuovamente e miseramente presa in giro. Per saperne di più consiglio l’articolo di Fiorenza Sarzanini.

Qui di seguito una mia intervista con Rashid, 26enne pachistano, durante un reportage al Cara di Gradisca del gennaio 2014. Perché per capire i numeri c’è bisogno di conoscere anche le storie.

Sono 37.350 le persone che nel 2011 hanno fatto domanda di asilo politico in Italia. A metterlo nero su bianco sono i dati del Dossier Caritas-Migrantes che, di anno in anno, fotografa la situazione dell’immigrazione nel nostro Paese in cui, si stima, vivono ormai 5 milioni di cittadini provenienti da 200 nazioni del mondo. Lunedì pomeriggio, nella nostra visita al Cara di Gradisca, al fianco del direttore della Fondazione Migrantes, Giancarlo Perego – e accompagnati da don Walter Milocco e don Paolo Zuttion, rispettivamente direttori della Mi- grantes e della Caritas di Gorizia – quel dato non è rimasto un numero, ma si è colorato del volto dei tanti richiedenti asilo che abbiamo incontrato. Afghani e Pakistani, per lo più, che – dopo un primo momento di incuriosita diffidenza – si sono ben presto avvicinati a noi per scambiare qualche parola o, più semplicemente, per stringere la mano a mons. Perego e, con un sorriso, dirgli «Grazie di essere qui».

La storia di Rashid

Chiedo se sia possibile intervistare uno di questi ragazzi per raccogliere una testimonianza che dia anche solo un’idea delle tante storie che stanno dietro ai numeri delle statistiche. Nessun problema, si fa subito avanti un giovane pakistano che qui chiameremo Rashid. Non solo. Ci danno subito la possibilità di parlare in tutta tranquillità in uno degli uffici della direzione. Un bel segnale.

Rashid ha 26 anni, lo sguardo intelligente e una gran voglia di raccontarsi, anche se deve interrompersi spesso, l’emozione e i ricordi hanno il sopravvento. Viene dalla Khyber Agency, territorio tribale del Pakistan nordoccidentale al confine con l’Afghanistan. Un territorio difficile in cui si fronteggiano talebani pachistani e miliziani di forze tribali appoggiate dal governo. Le violenze sono all’ordine del giorno, basti pensare che a dicembre, nella regione, tutti i volontari impegnati nel programma di vaccinazione contro la poliomelite hanno abbandonato in massa il proprio lavoro a seguito del- l’uccisione di uno di loro da parte dei talebani. Sono poi migliaia gli sfollati e i profughi nei campi allestiti dall’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. Già questo dovrebbe bastare per capire.

Inizia dalla sua famiglia Rashid. «Avevo mia madre e mio fratello – racconta –, mio padre è morto diversi anni fa. Negli ultimi tempi non vivevo con loro, mi ero trasferito in città per studiare, frequentavo la facoltà di Letteratura inglese». Tante le difficoltà, ma tutto sommato la vita scorre e,almeno sembra, sui binari giusti. Ma lo raggiunge la notizia che il fratello, più vecchio di un paio d’anni, è scomparso nel nulla. Rashid lascia l’Università e rientra da sua madre, «non potevo lasciarla sola – spiega – e soprattutto non potevo darmi pace per mio fratello. Mi sono messo a cercarlo ovunque, sono qua- si impazzito, ma di lui nessuna traccia». Gli chiedo se si è fatto un’idea di quello che è gli è successo, ma non va molto oltre un sorriso denso di tristezza. «Era un ingegnere informatico – spiega –, aveva davanti a sé mille possibilità, l’avrebbero preso a lavorare in qualsiasi angolo del pianeta, Stati Uniti, Inghilterra, ovunque. Ma si era messo in testa di poter cambiare il mondo, ma il mondo non lo cambi. E così è diventato scomodo».

«Sono nato due volte»

Arriva così la decisione di lasciare il Pakistan, lo aiuta uno zio che finanzia il viaggio. «Sono passato attraverso l’Iran. È stato un viaggio lungo 6 settimane. Non riuscirò mai a trovare le parole adatte per descriverlo. Sono passato di mano in mano, attraverso persone senza troppi scrupoli, usando non so quanti mezzi di trasporto. Ho viaggiato a piedi, nascosto nelle auto e nei tir, passando dalla Grecia. Quando finalmente mi hanno fatto scendere e mi hanno detto che ce l’avevo fatta, che ero a Roma sono stato assalito da un’emozione indescrivibile. Si mescolavano felicità e tristezza. Tutta la mia vita, tutto quello che conoscevo era alle mie spalle. Non avevo più una famiglia, avevo interrotto i miei studi e lasciato il mio Paese. Ho avuto la sensazione di nascere di nuovo, mi sono sentito come se qualcuno mi avesse dato una seconda possibilità».

Progettare il futuro

Gli chiedo quali siano adesso i suoi progetti. Sorride. «Non è semplice fare progetti qui. Sono in attesa di sapere se sarà accolta la mia domanda di asilo, nel frattempo la mia vita è come bloccata». Spesso il tempo di attesa per conoscere il proprio destino è – per chi decide di chiedere asilo in Italia – lunghissimo. Ci vogliono mesi perché venga presa in carico la domanda e poi ci sono i ricorsi. Possono trascorrere anche anni, senza la possibilità, nel frattempo, di cercarsi un lavoro, anche una piccola occupazione. La legge lo vieta. Ma Rashid non si perde d’animo, ha le idee chiare. «Non so bene quello che sarà di me, ma di una cosa sono certo: non butterò via la mia vita. Voglio continuare i miei studi e laurearmi, non mi accontenterò di fare il cameriere in un negozio di pizza al trancio. Ho attraversato mille difficoltà, dormito nei parchi pubblici, guardando le persone con una vita normale. Ho rischiato la vita e poi, sono l’ultimo sopravvisuto della mia famiglia. Anche per loro non posso sprecare la mia vita».

Lasciando il Cara saluto mons. Perego e la piccola delegazione goriziana. Ci diciamo che, tutto sommato, qui a Gradisca la situazione è migliore che altrove, c’è molta umanità, ma guardiamo l’alto muro con il filo spinato che divide il Cie (chiuso fino a quando?) e il Cara dal resto del mondo e ne siamo certi, gestire così il problema dei rifugiati rappresenta il segnale, per usare le parole di mons. Perego, «della caduta libera della democrazia». È tempo davvero di «un cambio di passo».

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