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«Repubblica luminosa»: l’utopia anarchica dei bambini

Questa volta non è stato un colpo di fulmine. Prima di iniziare a leggere «Repubblica luminosa» di Andrés Barba (La nave di Teseo) l’ho preso in mano, sfogliato e riposto nel suo scaffale almeno 4 o 5 volte. Sarà per quella sua copertina che proprio non rende giustizia a un libro che invece è davvero bello, inusuale e intelligente. Che merita di essere letto con attenzione. E, possibilmente, senza troppe pause di mezzo.

Ma veniamo alla storia. Siamo a San Cristobal, nella provincia sudamericana. La voce narrante – un funzionario statale, di cui non conosciamo il nome – ricostruisce i fatti accaduti 22 anni prima, quando la comparsa di 32 bambini sospende bruscamente il cammino della cittadina verso una modernità borghese e benestante. Sbarazzarsi della tirannia della trama è la prima cosa che Barba fa, svelandoci, sin dalla prima riga, che i 32 ragazzini moriranno. Da qui in poi la narrazione – asciutta e intensa – è tutta tesa a condurre il lettore in quella cittadina, ai margini di una selva tropicale sinistra («un vero e proprio personaggio della storia», ha spiegato lo scrittore madrileno a Pordenonelegge), dove, alla spicciolata e dal nulla, compaiono (e scompaiono) questi ragazzini. Poveri, sporchi, selvatici, non mendicano, non chiedono: semplicemente prendono, anche con la violenza. E poi, parlano una lingua incomprensibile, inventata, che solo una bambina della città sarà in grado di decifrare. Dunque una comunità infantile senza gerarchie, orizzontale, che disegna un’utopia anarchica, in aperto contrasto con la gerarchizzazione del mondo adulto, capace di seduzione anche nei confronti dei bambini della città.

Dialogando con noi giornalisti, a Pordenonelegge, l’autore ha spiegato di aver voluto scardinare la visione adulta dell’infanzia come paradiso perduto e gli stereotipi che la alimentano. Alcuni miei colleghi (quelli bravi) hanno detto a Barba che il riferimento è chiarissimo a «Il signore delle mosche» di William Golding. Barba ha sorriso e, con garbo, ha spiegato che a ispirarlo molto sono stati «Cuore di tenebra» di Joseph Conrad (che ha recentemente tradotto) e «The Children of Leningradsky», documentario del 2004 di Andrzej Celiński e Hanna Polak sui bambini che vivono nel metrò di Mosca.

Comunque sia, il risultato è che il racconto di quella comunità mette a nudo l’inadeguatezza di un sistema e mostra la sconfortante capacità di autoassoluzione di una società che, di fronte a quello che non riesce a comprendere, sceglie di far propria una morale alternativa. Quei bambini sono diversi, inafferrabili, per loro la città sceglie quindi misure speciali, di fatto la sospensione dei diritti. Di quella società l’io narrante è uno, ma ci aiuta a cogliere i tanti sguardi che la compongono («Come Habermas – ha spiegato Barba – ritengo che diverse prospettive servano a ricomporre una verità di quello che è successo, una verità condivisa, non moralistica»). Non a caso a  pagina 99 leggiamo: «Le narrazioni e le cronache sono come le carte geografiche. Da una parte, i colori dei continenti, vasti e ben definiti, cioè gli episodi collettivi che tutti ricordano, dall’altra le profondità oceaniche delle emozioni personali». È proprio questo che cattura il lettore, la capacità di Barba di tenere insieme entrambi i piani.

 

Andrés Barba (Madrid, 1975) è uno dei più importanti scrittori spagnoli della sua generazione. Romanziere, poeta e saggista, è stato finalista al Premio Herralde nel 2001 con il romanzo La sorella di Katia, diventato un film per la regia di Mijke de Jong. Ha pubblicato cinque romanzi, diversi libri di racconti, tre saggi e un libro di poesie, ricevendo i massimi premi spagnoli, tra cui il Premio Torrente Ballester e il Premio Anagrama de Ensayo. Ha tradotto autori come Herman Melville, Henry James, Joseph Conrad e Thomas De Quincey. La rivista “Granta” lo ha inserito tra i migliori narratori contemporanei di lingua spagnola. Repubblica luminosa ha vinto il Premio Herralde 2017 ed è in corso di pubblicazione in 18 paesi.

 

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